24 Le scoperte scientifiche
Da quanto detto la struttura complessa di qualsiasi entità fisica può essere chiarita e venir semplificata dalla conoscenza delle regole di questo smisurato reticolo che condiziona i rapporti tra le singole entità intese staticamente ed anche in senso evolutivo. I nodi, gli attori di questa rete, possono essere rappresentati da singoli individui, da organismi, società, da ideali, dal linguaggio e da qualsiasi costituente di ciò che indichiamo col termine complesso. Ad esempio sono inquadrabili con questa ottica anche le scoperte scientifiche che traggono sempre inizio da un substrato originato dall’osservazione e dalla successiva elaborazione di un complesso sperimentale, a sua volta espressione di molteplici input a volte anche distanti e dissimili tra loro.
La scoperta, che è il punto d’arrivo di una trama di ricerca all’inizio indistinta e via via più focalizzata, rappresenta il nodo centrale di un sistema, che, raggiunta la vetta, si espande e si ripercuote in vari settori come un eco in alta montagna, e si diffonde in mille rivoli di conoscenze e di possibilità evolutive. Le teorie di Einstein, ad esempio, dopo cento anni, hanno dato origine a tanti sistemi applicativi che quotidianamente utilizziamo; le tecnologie che sono derivate da quegli studi sono utilizzate in tantissimi settori della vita attuale, che ci condizionano e fanno parte integrale del consumismo imperante, anche se, ed é amaro constatare, le teorie e l‘essenza del pensiero di Eintein non siano conosciute, perché a mala pena e malamente insegnate.
Il nostro modo di vivere, la nostra civiltà è frutto di scoperte che primariamente derivano dalla curiosità e dalla necessità di risolvere i problemi che via via si sono presentati; anche se le invenzioni spesso possono derivare da eventi fortuiti. Questa dinamica evolutiva del pensiero può essere rappresentata da una rete che mostra una struttura simmetrica: la realtà, l’oggetto di curiosità e la necessità di risolvere un problema rappresentano gli elementi da considerare come oggetto iniziale, poi il percorso conoscitivo come raggi confluenti verso la scoperta, nodo focale ed alla fine l’emissione delle conoscenze come raggi divergenti e forieri di diversi sistemi applicativi. Vedo il tutto come una lente che esplora la realtà da una parte ed emana dal punto focale il significato e l’essenza della scoperta e dall’altra l’immagine proiettata nella tecnologia. Simile al percorso delle più recenti visioni cosmologiche: Big Bang > Universo, Realtà > Buco nero > nuovo Universo, nuova Realtà; cicli di mondi in perenne apparente distruzione con nuove rinascite e rimbalzi ondulatori.
Una delle principali motivazioni che stanno alla base della nascita e dello sviluppo dell’attività scientifica consiste nel trovare dei modelli semplici che possano spiegare e riprodurre quello che avviene in natura. Per questo motivo fin dai tempi dei Greci, i filosofi e gli scienziati hanno cercato di scoprire dei modelli matematici, delle teorie, che potessero essere usate per studiare i fenomeni naturali. Pitagora fu il primo a sostenere che "il linguaggio segreto della realtà sta tutto racchiuso nei numeri". Ora le motivazioni, fondamentalmente sempre le stesse, hanno assunto una valenza più completa e utilitaristica sin dopo la rivoluzione industriale tra la fine del settecento e la metà dell’ottocento in cui c’è stata l’emersione fondamentalmente di tre novità: l’impiego delle macchine per ridurre la fatica dell’uomo, la nascita della macchina a vapore e l’utilizzo del ferro e del carbone per produrre energia; le scoperte cioè sono state utilizzate per aumentare la produttività del lavoro al fine di ridurre la fatica, migliorare le condizioni di vita tentando di eguagliare e di livellare le qualità e le quantità necessarie ai bisogni delle popolazioni, anche se il primum movens è stato quasi sempre l’egoismo del profitto. La storia ci insegna che le invenzioni importanti sono spesso figlie di molti padri: sono, per così dire nell’aria, nel flusso della cultura e sono frutto di tanti piccoli passi, di intuizioni a più voci, di tante piccole scoperte fatte da diversi individui, anche in tempi e luoghi disparati. Il motore a scoppio, ad esempio, ha avuto la stessa genesi: l’intuizione iniziale fu dell’abate francese Jean d’Hautefuille, che nel 1678 ispirandosi alla fisica del cannone, ideò un sistema che sfruttava l’esplosione per generare il vuoto prodotto dall’esplosione della povere da sparo in un tubo immerso nella Senna; con questa metodica le fontane della reggia di Versailles potevano abbellire i giardini del re Luigi XIV, erogando giornalmente 3000 metri cubi d’acqua. Il Settecento fu poi il secolo in cui il motore a vapore, dopo gli studi fondamentali di James Watt [1], si sviluppò tecnologicamente. E lo sviluppo tecnologico facilitò l’invenzione del motore a scoppio che fu attribuita a diversi capostipiti, ma con un meccanismo diverso: l’invenzione fondamentale fu attribuita al tecnico belga Lenoir, che nel 1860 copiò maldestramente il motore dei costruttori italiani Barsanti e Matteucci, che sette anni prima, lo avevano presentato all’Accademia dei Georgiofili di Firenze e di cui avevano inviato anche la richiesta di brevetto in Inghilterra col titolo: “Obtaining motive power by explosion of gases”; brevetto accettato il 12 giugno del 1854. Ciononostante il motore del belga Lenoir fu prodotto in gran numero dai prussiani Otto e Lange, che per centocinquant’anni furono indicati come scopritori del motore a scoppio! La verità della scoperta di Barsanti e Matteucci è venuta a galla dopo appena 150 anni!: solo recentemente al Deutsches Museum di Monaco è stato esposto il primo motore a scoppio della storia, donato dalla fondazione Barsanti e Matteucci di Lucca.
La verità spesso fa fatica ad emergere.
E se pensiamo in termini di rete: possiamo riassumere questa storia come una rete “com’è tardo il mondo” il cui collegamento si manifesta dopo un secolo e mezzo! La connessione tra due nodi, in questo caso, si manifesta lontana sia dal punto di vista spaziale che temporale.
Le verità spesso sono sotto i nostri occhi da sempre, ma non le consideriamo, e quando qualcuno, riuscendo a disseppellirle dalla sabbia dell’ignoranza e dell’indifferenza, le esplicita e le valorizza, all’inizio ci sembrano impossibili, poi, conoscendole le riconosciamo, ed essendo reali, le consideriamo verità, ma già conosciute. La nostra oggettività cognitiva si identifica come in uno specchio nella realtà oggettiva.
Spesso le nuove interpretazioni, che riguardano la realtà che ci circonda, passano attraverso tre stadi distinti: dal “non è vero”, al “può darsi che sia vero, ma non è importante”, al “è vero ed è importante, ma non è una novità, è risaputo”. Questo è l’incipit de: ”L’Universo come opera d’arte” [2] dell’astronomo John D. Barrow, in cui la fisica, la cosmologia, la cibernetica, la biologia evolutiva e l’arte, la storia e la filosofia vengono accomunate al pensiero umano indicando che le reti della scienza e della creatività umana, come la musica nei confronti delle sensazioni umane, si assimilano in un tutto organico con l’universo.
Ho paragonato il percorso conoscitivo ad un albero, e nella maggior parte dei casi questa asserzione è vera, ma non sempre: a volte la conoscenza resta isolata e costituisce un ramo secco, spezzato, che non si relaziona con altri ed é paragonabile a quel chicco di riso della criticità auto-organizzata che cade e rotola lontano dal mucchio restando isolato, senza alcuna connessione. Ed è quello che è successo a proposito della concezione eliocentrica proposta da Aristarco da Samo, conoscenza che avrebbe anticipato di due millenni gli studi e le conclusioni di Copernico. A volte la conoscenza può essere frutto di cause fortuite e di avvenimenti che nel tempo poi sono andati persi, dimenticati esplicitando l’estrema fantasia della contingenza; è paradigmatico a questo proposito il caso del ritrovamento di una nave greca colma di anfore, vasellame e statue, inabissatasi nel primo secolo prima di Cristo nelle acque tempestose a nord di Creta davanti all’isola di Antikythera e ritrovata fortuitamente nella primavera del 1900 da pescatori greci, che, imbattutisi in una violenta tempesta, cercarono rifugio in acque più tranquille a nord dell’isola. Il materiale che la nave inabissata conteneva fu poi recuperato e custodito per cinquant’anni nel museo nazionale di Atene, ove si iniziò una lenta e laboriosa opera di catalogazione dei reperti; tra questi un ammasso di metallo amalgamato ad incrostazioni calcaree frutto della permanenza nella profondità del mare, che sembrava, per la presenza di ruote dentate e di ingranaggi, un orologio. Studi successivi hanno chiarito che si trattava di un meccanismo capace di predire le fasi lunari, i movimenti dei pianeti e le eclissi di sole e di luna. Tecnologia, frutto della conoscenza astronomica di 2200 anni fa; entrambe inabissate senza aver determinato conoscenza e progresso, come non fossero mai esistite!
La tecnologia è frutto dell’attività umana: pietre, scarpe, clava, freccia, ruota: strumenti base per cacciare, difendersi, spostarsi, poi nel tempo ha acquisito lentamente una propria indipendenza e, a volte anche bruscamente una propria identità, ma sempre con caratteri emergenti, soprattutto dopo la rivoluzione industriale, suo prodotto più consistente, che è stato capace di modificare significativamente la vita dell’umanità, tanto da far prospettare a Kelvin Kelly [3] una sua propria identità evolutiva. La tecnologia, figlia dell’uomo e capace di condizionare la propria evoluzione e la vita stessa del suo ideatore, non è un groviglio di fili, di motori e di transistors, ma separata dal suo creatore, costituisce un’entità parallela con un notevole ed inevitabile potere autonomo.
Praticamente Kelly ci fa comprendere che questa nuova entità, che chiama “Technium”, innanzitutto evolve e si diversifica assomigliando ad un organismo biologico, che comunque aiuta e può sino ad un certo punto continuare ad aiutare, ma può anche, acquisendo autonomia, orientarsi negativamente verso il proprio ideatore, dimostrandoci di possedere una indipendenza ed una autonomia con caratteristiche sia positive che negative. La tecnologia è dopotutto un sistema complesso e come tale possiede proprietà emergenti caratteristica di qualsiasi sistema complesso. Questa emergenza, questa progressione è simile all’evoluzione di un qualsiasi insieme organico, perché si basa su un substrato matematico strutturale su cui si appone l’onnipresente contingenza: come la crescita del famoso fiocco di neve.
Tra le tre dinamiche evolutive proprie della vita (la strutturale, quella storica dipendente dalla contingenza e la funzionale adattativa), la tecnologia possiede in comune sia quella strutturale di base, che quella derivante dalla contingenza, mentre si differenzia, evidenziando al posto della dinamica funzionale adattativa della selezione naturale, la dinamica intenzionale, dipendente primariamente dalla volontà dell’uomo; in seguito la tecnologia diviene autonoma e presenta una sorta di cammino parallelo a cui l’uomo utilizzandola contribuisce anche alla sua diversificazione.
Nella storia dell’umanità i primi attrezzi sono stati certamente quelli atti alla difesa: il lancio delle pietre, la clava e in seguito la scoperta del fuoco, che ha modificato significativamente il percorso evolutivo dell’uomo, rappresentando la prima grande conquista dell’umanità. Il fuoco fu sinonimo di sopravvivenza perché rappresentava il primo gradino indubitabile della lunga scala che ha allontanato il nostro genere dall’indeterminazione che ci accomunava ai nostri preesistenti antenati. Il fuoco era certamente considerato con timore e con rispetto; si può ipotizzare che gli uomini impararono a servirsene ed a mantenerlo acceso dalle fiamme di un albero incendiato colpito dal fulmine o da una savana incendiatasi per autocombustione [4] o ancora dalla lava di un vulcano in eruzione. Certo è che inizialmente era mantenuto con timore e venerazione nelle grotte al riparo dai venti [5] ed utilizzato per riscaldarsi, per la cottura della carne e dei vegetali, per difendersi, allontanando i predatori notturni ed ha rappresentato un fattore determinante per la socializzazione stabilendo quella vicinanza, che ha certamente indotto i primi germi del linguaggio favorendone anche la sua evoluzione. Inoltre le attività della nascente tribù si espandevano anche durante le ore notturne non più buie. Inoltre la cottura degli alimenti modificò la dieta rendendo la carne più digeribile, ridusse il volume dei muscoli masticatori contribuendo di conseguenza all’aumento volumetrico dell’encefalo; la nuova dieta ha avuto il pregio di incrementare l’apporto calorico per la migliorata digeribilità dei cibi vegetali ricchi di amido, oltre ad avere un effetto igienico dovuto all’eliminazione di parassiti e dei germi patogeni nei cibi cotti; il fuoco ha perciò rappresentato un elemento cardine della contingenza capace di modificare il percorso evolutivo dell’umanità.
Dapprima l’uomo fu capace unicamente di mantenerlo acceso e solo in seguito imparò le modalità ad accenderlo: dallo sfregamento di due pezzetti di legno secco l’incremento del calore induceva la combustione e, quindi, l'uomo, riuscendo ad accendere il fuoco autonomamente, poteva anche esplorare nuovi territori, dando inizio alle prime migrazioni della nostra storia. In seguito furono praticate altre tecniche per l’accensione del fuoco: quella del trapano, caratterizzata dall'uso di un bastoncino di legno duro, fatto ruotare rapidamente su di un pezzo di legno secco più tenero e provocando così, l'aumento della temperatura sino all’inizio della combustione. Un'altra tecnica, certamente iniziata da un episodio contingente, utilizzava, invece, lo sfregamento di due minerali, la selce e la pirite.
Nel 2004 in un sito archeologico sulle sponde del Giordano in Israele furono trovate le prove di fuochi tra le rocce, ma non fu chiarito come eventualmente fossero stati accesi. Recentemente a Gesher Benot Ya’aqou [6] ricercatori della Hebrew University analizzando dodici differenti stratificazioni hanno rinvenuto numerose pietre focaie utilizzate, che testimoniano l’acquisizione della semplice (!) induzione di una scintilla dallo sfregamento di due pietre e l’inizio della loro utilizzazione ben 760 mila anni fa. Il Medio oriente del resto è stato da sempre considerato il crocevia per la diffusione dell’Homo sia verso l’Europa che per l’Asia, anche se studi recenti proverebbero che l’Homo Sapiens abbia lasciato l’Africa sessanta mila anni prima di quanto fino ad oggi ipotizzato, attraversando 130.000 anni fa il Mar rosso nella regione di Jebel Faya, accanto allo stretto di Hormuz, approfittando dei bassi livelli del mare di allora e della maggior vicinanza delle costa arabica durante l’inizio dell’ultimo periodo interglaciale [7].
Il controllo del fuoco si è verificato comunque in numerosi siti e in tempi diversi, ma con modalità simili. Con una visione complessiva si è trattato di un fenomeno paragonabile alla maturazione dei frutti di un albero o dello spuntare dei fiori in campi diversi. L'avventura umana del fuoco ha significato anche la conquista di temperature sempre più alte non solo per cuocere i cibi, ma per fondere lo stagno, il rame e per ottenere bronzo, per cuocere l'argilla ottenendo vasellame di terra cotta e la ceramica a pasta bianca, e per produrre oggetti di vetro e in seguito per fondere e lavorare il ferro. Del resto l’avventura del fuoco continua anche ai giorni nostri per arrivare alle temperature di milioni di gradi necessari per accendere i reattori a fusione nucleare che sono attualmente allo studio. A quel punto avremo raggiunto la temperatura delle stelle e la loro intrinseca conoscenza. Né dobbiamo sottovalutare il lungo periodo nel quale l’uomo ha smesso di essere un cacciatore-raccoglitore, periodo in cui si è diffusa l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, fattori che certamente hanno contribuito alla socialità, al linguaggio e all’inizio delle considerazioni riguardanti il tempo metereologico, le stagioni ed il cielo stellato.
Tornando alla tecnologia, questa, in qualsiasi contesto, trova il suo momento iniziale nel tentativo di voler risolvere un problema pratico, che per essere superato necessita primariamente dell’osservazione della realtà contestuale. Per salire l’uomo ha scoperto la scala a pioli, bella scoperta – mi si può ribattere - ma per la necessità di affrontare il problema a qualcuno è venuto in mente di sovrapporre pietre con una forma tale e con una disposizione idonea per poter favorire la salita. O altrimenti, in mancanza di pietre, ha utilizzato un albero spiantato usando i rami per salire.
Ed i lunghi percorsi che il bipede uomo ha affrontato alla ricerca di cibo e di un habitat a lui più congeniale, lo hanno spinto a diffondersi dall’Africa al mondo intero e lo hanno certamente costretto ad usare arnesi idonei a favorire una più facile deambulazione; si presume che circa 500 mila anni fa gli uomini sentirono il bisogno di proteggere i loro piedi. A causa delle temperature glaciali si avvertì il bisogno di difendere le estremità con pelli degli animali uccisi a scopo alimentare ed a fasciarsi i piedi per riscaldarsi, tuttavia non è possibile stabilire l’epoca esatta della realizzazione delle prime scarpe perché il materiale animale o vegetale utilizzato adesso non è più reperibile. In uno studio pubblicato sulla rivista «Journal Archaelogical Science» lo scienziato americano Erik Trinkaus, professore della Washington University a St Louis, ha prospettato che le prime rudimentali scarpe siano comparse tra i 40.000 ed i 26.000 anni a. C.. La presenza di scanalature nelle ossa dei piedi dei nostri antenati deporrebbero per l’uso delle prime scarpe, che col tempo resero le ossa meno forti e resistenti. L’apparizione delle prime calzature coincide con il periodo preistorico ricco di progressi per il genere umano. Secondo Paul Mellas, professore ordinario di storia primitiva all’Univeristà di Cambridge in quel periodo ci furono «considerevoli cambiamenti» nella vita dei nostri antenati: «Circa 35.000 anni fa e via di seguito gli uomini produssero le prime forme d’arte, i primi arnesi in pietra, le prime decorazioni personali e i primi gioielli. Non sarebbe una sorpresa scoprire che la comparsa delle prime scarpe sia avvenuta proprio in quell' epoca».
Una scoperta più recente e che ha dato un impulso notevole alla diffusione dei popoli sulla terra è stata certamente l’invenzione della ruota.
Qualsiasi sistema omogeneo inserito nel tempo segue sempre una dinamica che si estrinseca seguendo la legge di potenza; anche la progressione degli spostamenti territoriali e le diverse tecnologie utilizzate per attuarle: dal singolo individuo curioso, che ha indicato l’itinerario al suo simile ed agli altri componenti del gruppo ed al primo gruppo seguito dagli altri, così dal primo spostamento e dai primi spostamenti attuati nei millenni utilizzando le proprie forze con la propria fatica fisica all’uso di nascenti tecnologie, anch’esse inserite nella universale legge alla potenza, come le formiche: l’utilizzo di slitte per i primi trasporti, all’uso di tronchi utilizzati per lo spostamento di massi per le prime costruzioni megalitiche, alla constatazione dell’effetto rotolamento attuato con i tronchi degli alberi che hanno portato alla nascita relativamente recente della ruota, favorita anche dalla diffusione degli animali da soma per il trasporto di pesi più consistenti. L'invenzione della ruota e la sua utilizzazione per il trasporto risale al IV millennio a.C. e sicuramente deve essere stata preceduta da un lungo periodo di esperienze delle comunità protostoriche nell’utilizzo del trasporto di grandi pietre e di altri carichi pesanti necessari per le costruzioni megalitiche, che hanno caratterizzato l'ultimo periodo del neolitico e l'inizio dell'età dei metalli nelle regioni dell'Europa occidentale e di quelle del Mediterraneo orientale. Le prime ruote furono utilizzate dai Sumeri cinquemila anni a. C. in Mesopotamia per la lavorazione di vasellame, poi quelle realizzate per i carri erano semplici dischi in legno con un foro al centro per l'asse come sono rappresentate sullo Stendardo di Ur del XXV secolo a.C., intarsiato di lapislazzuli e d’avorio. Per i perni delle ruote, come per le prime armi da taglio il ferro iniziò la sua triste ma anche utile comparsa.
E' accertato dagli scavi archeologici che i Sumeri riproducevano scene impresse sulla superficie dell’argilla usando piccoli rulli, chiamati cilindri o sigilli facendoli rotolare; e non è forse un caso che questi sigilli siano stati ideati dalla stessa civiltà che ha inventato la ruota ed il carro.
La tecnologia evolve dal semplice al complesso come la natura stessa che emerge ed evolve verso realtà oggettive che, nel caso delle forme naturali rappresentano il risultato e sono l’espressione della storia evolutiva, mentre nel caso delle tecnologie umane sono frutto dell’ideazione possedendo contemporaneamente una propria dinamica che autonomamente condiziona l’emergenza di nuove forme. Questa interpretazione ad esempio risulta evidente se consideriamo con uno sguardo d’assieme da una parte l’ideazione della lampadina che, indipendentemente e quasi simultaneamente, è stata “scoperta” da ventitre inventori [8] e la paragoniamo all’evoluzione naturale dell’occhio, organo il più complesso, considerato perla dell’informazione e che Darwin stesso si dichiarava perplesso nel definirlo inquadrabile con difficoltà nella sua mirabile teoria evolutiva [9]. “Tuttavia – puntualizzava Darwin – la ragione mi dice che, se è possibile dimostrare, che esistono numerose gradazioni da un occhio perfetto ad un altro molto imperfetto e semplice (essendo utile al suo possessore) e che, inoltre, l’occhio varia molto leggermente e che le variazioni sono ereditarie; e che una qualsiasi variazione o modificazione dell’organo può essere utile ad un animale le cui condizioni di vita stanno mutando [10], allora la difficoltà di credere che, grazie alla selezione naturale, si possa formare un occhio perfetto e complesso anche se insormontabile dalla nostra immaginazione, cessa di essere consistente” [11].
Questo ragionamento si è dimostrato veritiero: l’occhio è il risultato di una convergenza evolutiva; infatti nel regno animale, dai protozoi ai primati, passando in rassegna vermi, insetti crostacei, molluschi, echinodermi, pesci ed anfibi, esistono una cinquantina di diverse tipologie di occhi. Alcuni sono rudimentali e riescono solo a fornire l’informazione di luce o assenza di luce, altri anche solo la direzione.
Il sistema foto-recettivo più particolare, e forse quello più ancestrale, è quello del Strongilocentrus purpuratum, il riccio di mare viola; il suo sistema non si è autorganizzato in una struttura specifica deputata alla visione, come nei cordati, ma, come in altri echinodermi è un sistema diffuso. Ogni aculeo, e il riccio ne possiede circa millecinquecento, non solo serve alla difesa, alla deambulazione, ad ancorarsi agli scogli ed alla nutrizione, ma è anche in grado di percepire la luce, determinando lo spostamento del riccio verso zone d’ombra, perché rifugge la luminosità. Uno studio recente [12] con l’uso di anticorpi specifici per l’opsina Sp-4 e Sp-pax6 (da geni essenziali per i sistemi fotorecettoriali) ha documentato la loro presenza all’apice degli aculei, alla stregua dei cuscinetti ottici delle stelle di mare. Il riccio è fornito solo di cellule sensibili alla luce, senza possedere le cellule pigmentate; l’ombra per determinare la direzione luminosa è quella del riccio stesso! Questo particolare ci induce giustamente a concludere che, benché da tempo gli scienziati ricercassero l’occhio del riccio senza averlo mai trovato, era macroscopicamente sotto i loro occhi: era il riccio stesso l’occhio del riccio!
Del resto l’informazione della luminosità è una caratteristica ancestrale presente anche nel regno vegetale: il fototropismo infatti è la risposta delle piante allo stimolo luminoso proveniente da una direzione; parti della pianta vengono indotte alla proliferazione cellulare, che, ad esempio nei fusti determinano il loro ripiegamento in modo da disporsi parallelamente alla direzione dei raggi luminosi, mentre le radici si dispongono verso il lato opposto, anche per mantenere l’equilibrio statico della pianta. Le foglie normalmente si dispongono perpendicolarmente ai raggi per poter sfruttare in pieno l’energia luminosa ed utilizzare il maggior irraggiamento necessario per la fotosintesi. La luce infatti anche ora è essenziale alle piante come lo fu sin dalla notte dei tempi per la vita stessa avendo determinato con la loro interdipendenza l’ambiente, il gradino evolutivo più importante nella storia del mondo. La fotosintesi infatti è il processo biochimico che permette agli organismi autotrofi di sintetizzare il glucosio utilizzando l’acqua e l’anidride carbonica col il determinante utilizzo dell’energia luminosa solare. Questo essenziale processo biochimico consente di trasformare l’energia solare in energia chimica fornendo all’atmosfera la molecola più importante per la nostra vita: l’ossigeno. Questa è la tecnologia equilibrata della natura capace di sostenere il corso della vita, mentre la tecnologia imitata dall’uomo per catturare l’energia del sole, che é iniziata solo da qualche anno per essere sfruttata, non dà nulla in cambio, a parte la trasformazione dei prati in fredde stanze da bagno!
La quantità di energia solare che arriva sul suolo terrestre è enorme [13], circa diecimila volte superiore a quella utilizzata dall’umanità nel suo complesso, ma per essere sfruttata ha la necessità di strumenti e tecnologie costose con un’efficienza di conversione che al massimo raggiunge il 32 % nelle celle di laboratorio ed il 12% nei pannelli esterni.
La luce rappresenta un richiamo universale, è calore ed energia e contemporaneamente informazione. Le piante dispongono le foglie in modo che presentino la massima superficie all’insolazione: il fototropismo modella le foreste!
E gli occhi sono il tramite per la rete mirabile dell’informazione nel mondo.
Uno dei primi esempi che la luce possa rappresentare l’informazione è lo strano comportamento di alcuni microrganismi, che trovandosi non più illuminati evidenziano una particolare risposta chiamata “movimento shock”; come spaventati dal buio si bloccano ed il microrganismo fototrofo [14] si dirige verso la luce. Si presume che il cambiamento repentino di ATP, indotto dall’assenza di luce a livello della membrana, possa rappresentare un segnale che influenza negativamente i flagelli responsabili del movimento del microrganismo. Quasi tutte le alghe unicellulari (Protisti autotrofi) costituiscono complessivamente la biomassa del fitoplancton responsabile del 70% di tutta l’attività foto-sintetica della terra. Tra queste le Englenofite presentano una macchia oculare che rileva la luce; in assenza di luce, queste perdono i cloroplasti e da essere autotrofe diventano eterotrofe; in parole comprensibili in assenza di luce, non essendo più in grado di effettuare la fotosintesi, cioè di essere autosufficienti ed autonomi nei riguardi del “cibo”, riescono a sopravvivere procurandoselo dall’esterno.
L’unità essenziale, l’elemento costitutivo ed iniziale dell’occhio, è la cellula foto-recettrice contenente l’opsina, una proteina sensibile alla luce, che circonda il cromoforo, pigmento che funge da bersaglio alla luce e che, assorbendo i fotoni, determina una reazione chimica per cui l’energia del fotone viene trasdotta in energia elettrica per essere veicolata al sistema nervoso. Ma nei primi stadi evolutivi la comparsa del sistema nervoso non era ancora avvenuta: il cervello si è sviluppato successivamente; pertanto l’energia nervosa del cromoforo veniva trasmessa direttamente alle mio-cellule (cellule motorie) per determinare lo spostamento individuale, come tuttora avviene sia nel Cladonema [15], una medusa che, pur in assenza di cervello è capace di nuotare e spostarsi elegantemente! Lo stesso automatismo, la fototassi, é presente nella larva dell’anellide Platynereis dumarilli [16], facendolo ruotare in modo da fargli raggiungere la parte superficiale e assolata del mare e rappresentando il fattore essenziale per la migrazione verticale del plancton, il più consistente spostamento di biomassa sul nostro pianeta! Anche gli occhi di questa larva sono forniti di due cellule: una foto-recettrice e la seconda pigmentata; questi occhi non acquisiscono la visione come per gli animali superiori, ma il loro occhio raggiunto dai raggi luminosi invia segnali alle ciglia vibratili poste vicino che rallentano la loro “remata”, mentre quelle situate più lontane continuano a remare normalmente in modo da orientare la larva verso la luce. Questo semplicissimo “occhio ancestrale” rappresenta il fulcro di un semplice meccanismo, che orienta la larva priva di un sistema nervoso, permettendole comunque gli spostamenti necessari alla sua sopravvivenza e per accordarla al ciclo nictemerale. Lo studio [17] di questo anellide ha risolto il secolare problema, avvertito dallo stesso Darwin riguardante l’evoluzione del sistema occhio: la struttura organica più complessa esistente, che ha tratto semplicemente origine da due cellule appaiate: la foto-recettrice e quella pigmentata! Le cellule sensorie del suo rudimentale sistema “ottico” sono di due tipi: il primo è lo stesso posseduto quasi esclusivamente dai vertebrati, l’altro è tipico degli insetti, i cui occhi consistono in un insieme di lenti composte, contrariamente a quelli dei vertebrati che ne posseggono solo una. Ma il divario tra insetti e vertebrati consiste anche nei tipi differenti di cellule: gli insetti posseggono i fotorecettori rabdomerici, ricoperti di protrusioni digitiformi per aumentare l’esposizione alla luce, mentre quelli dei vertebrati sono ricoperti da minuscole ciglia che per aumentare la superficie espositiva alla radiazione luminosa si ramificano ad ombrello. L’anellide Platyneireis, è da considerare un fossile vivente [18], perché è identico al fossile Burgessochaeta del Cambriano del Burgess Shale, perché in entrambi i due tipi di cellule coesistono, dimostrando che gli occhi degli insetti e quelli dei vertebrati sono evoluti da un antenato comune, appartenente a questa specie.
Già secoli fa, quando, all’inizio della senescenza, la vista non era in grado di far osservare nitidamente le rughe delle proprie mani o le reti dei primi ricami, ma ci abituava a vedere lontano, gli occhiali venivano utilizzati e considerati veri gioielli. Già Seneca si era accorto che sfere di vetro ingrandivano le immagini degli oggetti e Nerone pare guardasse i gladiatori attraverso uno smeraldo per veder meglio le lotte o forse per non essere accecato dal riverbero nell’arena assolata. Leggende. La storia invece ci informa che Ruggero Bacone nel 1.200 d.C. fu l’inventore degli occhiali: assemblò dei segmenti di sfere di vetro e si accorse che potevano ingrandire i caratteri scritti, sino a renderli anche leggibili alle persone con vista debole. A Venezia poi gli artigiani del vetro trasparente iniziarono a fabbricare “gli ociai”, utili e reali gioielli; quelle lenti erano talmente preziose, che era vietato svelare le modalità ed i segreti per la loro lavorazione, pena la morte! Si trattava di oggetti per ricchi, per nobili e prelati; singole lenti, inserite in cerchi di rame o di ferro, dotate di un manico e, in seguito, unite da un perno.
Dal quindicesimo secolo l’uso degli occhiali si espanse in tutta l’Europa con l’aggiunta di continue e minime novità costruttive, che li rendevano più facilmente utilizzabili. Venezia e Firenze rimasero i centri famosi per la loro fabbricazione artigianale e, nel Veneto a Calalzo di Cadore, alla fine dell’ottocento, fu fondata la prima fabbrica su base industriale per opera di Angelo Frescura.
Ogni strumento, inizialmente semplice viene sempre arricchito da novità costruttive ed estetiche, e rappresenta il risultato di novità ideative: questo è l’attuale percorso obbligato del "tecnium", che si espande nel mondo come fosse una ragnatela frutto di un’entità biologica, cui stranamente esso stesso appartiene.
Comunicare, informare a distanza, connessi con veloci corrieri o con volute di fumo su rilievi montani o su torri isolate su picchi costieri, è stato il metodo per allertare le popolazioni indiane esposte alle conquiste dell’uomo bianco o quelle dei popoli dell’Italia meridionale agli attacchi ed alle incursioni dei Saraceni, poi, grazie alla tecnologia, espressione pratica delle conoscenze scientifiche, il territorio è stato avvolto dai “fili che parlano”, dando inizio a quella progressione della matassa, che dopo un secolo avvolgerà il mondo; dal timido risultato delle prime innovazioni tecniche, i messaggi inviati con l’alfabeto Morse, all’elettrofono conseguenza diretta delle progressive innovazioni tecnologiche: dalla curiosità elitaria per lo strumento salottiero, che da lì a breve unirà le voci del mondo, nel bene e nel male, la rete informativa iniziava con quella telefonica la sua esplosiva evoluzione, che trovava e trova noi umani impreparati nel presente alle nuove entità autorganizzative ed al futuro incombente, noi che all’inizio del terzo millennio conserviamo ancora gli istinti primordiali alla lotta, uniformati da una giusta ed aggregante necessità di cambiamento, ci troviamo impreparati culturalmente ad affrontarlo con raziocinio. Ora siamo avvolti da una rete informativa inimmaginabile, non solo a livello delle nostre amicizie e conoscenze, oppressi dall’uso utile e fastidioso dei telefonini, ma soprattutto dalla cultura mediatica globale.
Halan Varian, un economista di Google e Kevin Kelly [19] hanno calcolato in questi ultimi decenni che il totale dell’informazione mondiale è incrementata annualmente del 66%; oltre a superare il tasso di crescita di qualsiasi altro prodotto, tecnologico o attività del mondo; l’informazione è rapida, istantanea come una rete nervosa, che ininterrotta continua a strutturarsi facendo evidenziare qualità e difetti emergenti, che iniziamo a subire passivamente o a considerare positivamente. Basti ricordare il plebiscitario successo che alcuni capi di governo italiano hanno ottenuto con l'uso della radio ed i film "Luce", negli anni trenta, e con la manipolazione della televisione negli anni '80 o ancora le ricadute politiche e sociali avvenute in seguito all’elezione del presidente iraniano e la conseguente rivolta repressa nel sangue nel 2009, e ancora le più recenti rivoluzioni in Tunisia, Egitto, Libia e Siria, che nell’arco di poche settimane si sono propagate a macchia d’olio con l'uso della rete internet [20]. Le rivolte degli studenti spagnoli, gli “indignados”, ed i sovvertimenti che avvertiamo in fieri nel nostro ambiente politico, le instabilità sociali ed economiche, che serpeggiano in molte nazioni europee: situazioni tutte causate dalla fragilità strutturale, dal sedimentarsi delle ingiustizie minime e gravi, costanti e imperdonabili e dalle crisi economiche, che condizionano pesantemente uno stato metastabile, preludio di una criticità che si sta autorganizzando e che, come sappiamo, coinvolge e sconvolge qualsiasi struttura, come accade nel famoso mucchietto di riso (Capitolo 28). Tutte situazioni determinate dalla contingenza, ma favorite dalla diffusione istantanea dell’informazione mediatica.
Le rivoluzioni si sono sempre allargate per contagio, inserendosi su criticità che accomunano i popoli in certi momenti storici, ma la loro progressione si sviluppava un tempo nell’arco degli anni e non in settimane, mesi e giorni. Pertanto la tecnologia, la rete, non rappresenta la causa dei sovvertimenti, come si sente dire, ma certamente ha assunto una valenza contributiva essenziale, che determina sviluppi, che nessuno può essere in grado di prevedere. Perché rappresentano un’entità evolutiva emergente e come tale risulta autonoma, adattabile e sempre foriera di un nuovo ordine; si autoregola presentando infinite possibilità imprevedibili, perché rappresenta un sistema complesso e come tale sensibile alle condizioni iniziali, indipendente dai singoli componenti e mai lineare, e nel cui contesto si manifesta l’autorganizzazione. Pertanto i difetti che possiamo ascrivere all’entità emergente sono semplici: l'emergenza non è ottimale, non è controllabile e, ripeto, non è prevedibile! Certamente la rete in futuro farà emergere un megaorganismo foriero di novità anche positive, ma che potrebbe anche distruggerci! E nel frattempo è augurabile che venga utilizzata primariamente con finalità positive; infatti in quest’ultimo decennio è emersa una forma di intelligenza collettiva derivante dalla rete connettiva informatica, che ha dato l’avvio ad un cambiamento radicale di come attuare le ricerche scientifiche. I primi passi di questa trasformazione hanno già determinato in vari settori della scienza significativi risultati. Premettendo che la scoperta è l’obbiettivo della conoscenza, questa può in effetti essere paragonata alla cima di una montagna da cui si scorgono altre cime ancor più alte consentendoci di ampliare sempre più la nostra conoscenza.
Le rivoluzioni si sono sempre allargate per contagio, inserendosi su criticità che accomunano i popoli in certi momenti storici, ma la loro progressione si sviluppava un tempo nell’arco degli anni e non in settimane, mesi e giorni. Pertanto la tecnologia, la rete, non rappresenta la causa dei sovvertimenti, come si sente dire, ma certamente ha assunto una valenza contributiva essenziale, che determina sviluppi, che nessuno può essere in grado di prevedere. Perché rappresentano un’entità evolutiva emergente e come tale risulta autonoma, adattabile e sempre foriera di un nuovo ordine; si autoregola presentando infinite possibilità imprevedibili, perché rappresenta un sistema complesso e come tale sensibile alle condizioni iniziali, indipendente dai singoli componenti e mai lineare, e nel cui contesto si manifesta l’autorganizzazione. Pertanto i difetti che possiamo ascrivere all’entità emergente sono semplici: l'emergenza non è ottimale, non è controllabile e, ripeto, non è prevedibile! Certamente la rete in futuro farà emergere un megaorganismo foriero di novità anche positive, ma che potrebbe anche distruggerci! E nel frattempo è augurabile che venga utilizzata primariamente con finalità positive; infatti in quest’ultimo decennio è emersa una forma di intelligenza collettiva derivante dalla rete connettiva informatica, che ha dato l’avvio ad un cambiamento radicale di come attuare le ricerche scientifiche. I primi passi di questa trasformazione hanno già determinato in vari settori della scienza significativi risultati. Premettendo che la scoperta è l’obbiettivo della conoscenza, questa può in effetti essere paragonata alla cima di una montagna da cui si scorgono altre cime ancor più alte consentendoci di ampliare sempre più la nostra conoscenza.
Le scoperte scientifiche sono il risultato di tanti episodi, che, simili ai chicchi di riso che si appongono al mucchietto dell’esperimento di Bak, Chao Tange Kurt Weinsenfeld (Capitolo 28) lo fanno crescere verso l’alto, avvalendosi di tanti componenti inseriti nel tempo: curiosità, fantasia, studio, volontà, ragionamento, il tutto condizionato dalla contingenza. A volte la ricerca rallenta o si arresta per la mancanza o l’insufficenza delle dinamiche necessarie, ma spesso invece viene favorita dalla serendipità [21], comunque fortemente influenzata dalla collaborazione: “More is different” – Anderson; “Se si hanno più occhi a sufficienza qualsiasi problema diventa facile” [22]. A volte la risoluzione di un problema avviene in seguito ad un incontro con un esperto o raramente con una persona anche non ritenuta competente; comunque è essenziale trovare la persona giusta al momento giusto!
Emblematico fu l’episodio accaduto a Einstein quando stava elaborando con difficoltà la teoria della relatività generale. Nel 1912 per arrivare alla formulazione della sua teoria, doveva necessariamente confutare una verità della geometria euclidea: la somma degli angoli di un triangolo è sempre 180°! Chiese disperatamente [23] l’aiuto al suo amico matematico Marcel Grossman, che risultò essere proprio la persona giusta! L’amico gli rispose che per risolvere il problema doveva utilizzare la geometria sviluppata da Reimann [24]. Certo è che la geometria reismaniana divenne la geometria della relatività generale! Per tranquillizzarvi: 180 gradi è la somma degli angoli dei triangoli posti però su di un piano, ma non su un piano curvo.
Raramente la risoluzione di un problema avviene fortuitamente dall’aiuto di una persona che lo risolve inavvertitamente per la cosidetta serendipità [25]. Questa evenienza può essere allo stato attuale espansa e moltiplicata iperbolicamente con l’utilizzo della rete internet, che svolge la funzione di contenitore della serendipità pianificata. Questa nuova procedura è chiarita da Michael Nilsen in “Le nuove vie della scoperta scientifica. Come l’intelligenza collettiva sta cambiando la scienza” [26] con l’esempio della reazione a catena dell’Uranio 235; l’Autore ricorda che gli atomi di Uranio non sono molto stabili; ogni tanto un nucleo si disintegra espellendo uno o più neutroni. Se la quantità di Uranio è minuscola il neutrone ha poche possibilità di colpire altri nuclei, ma se la quantità di Uranio è maggiore, il neutrone colpisce facilmente altri nuclei dando avvio ad una reazione a catena. La collaborazione creativa si comporta pertanto allo stesso modo della reazione a catena dell’Uranio. Un’idea singola non determina che raramente una scoperta, ma se incontra altri cervelli, questi a loro volta possono far procedere il ragionamento: ecco come la serendipità pianificata, allorquando la collaborazione aumenta di dimensione, si comporta come un volano per la conoscenza. E’ ovvio che questo risultato positivo non è sempre automaticamente raggiungibile, ma il contesto determina una possibilità maggiore dell’isolato individuale “lampo di genio” di Helmotz, perché si evidenzia in un ambiente più numeroso.
Attualmente i nuovi sistemi della rete: "i social network", i "Wiki, i "blogg" e gli “open access”, che rappresentano il nuovo mondo dell’informatica, offrono validi strumenti per indagare profondamente la realtà del mondo, infatti nell’ultimo decennio le tecnologie digitali, oltre ad aver creato infinite possibilità di apprendimento, hanno fatto emergere inedite opportunità di collaborazione. Ed il vento della libertà e del rinnovamento sta soffiando anche sulla scienza intrisa e corazzata dal potere e non certo su quella già libera. La conoscenza, espressione di una rete integrata da tanti componenti, a loro volta espressione di reti formate da nuclei conoscitivi, anch’essi strutturati in reti: la conoscenza, espressione di una nuvola immensa di notizie, impressioni, esperienze, conoscenze tutte che contribuiscono alla nascita di novità emergenti in grado di risolvere tanti problemi altrimenti irrisolti o irrisolvibili.
Il massimo teorico della rete, pioniere dell’open science, David Weinberger [27], non ha dubbi: il mondo è testimone di una trasformazione del come fare scienza, che ovviamente contrasta i pilastri accademici ed editoriali esistenti e finora blindati da una oligarchia economica. Ma il muro che separa il 99% dei comuni mortali posti al buio dell’organizzazione scientifica, dall’uno per cento (1%) possessore delle chiavi della scienza, inizia ad essere sgretolato dall’open science.
La condivisione delle informazioni scientifiche aleggiava a livello individuale sin dai tempi dei padri della scienza moderna, ma il progresso, senza i contributi economici di sostentamento, non avrebbe potuto affermarsi ed evolversi. La strutturazione organizzativa della scienza sta mutando: oggi sono proprio quelle sovvenzioni che ostacolano l’emersione delle tecnologie più efficienti ed aperte, similmente alle dinamiche sociali narrate da George Orwell in “Animal Farm”! Oggi è il tempo della Data Science, la disciplina che sviluppa le tecniche per ottenere, conservare e condividere la spaventosa massa di informazioni digitali, che ogni giorno incrementa di oltre cinquemila petabites. L’I.B.M. l’anno scorso ha presentato un disco fisso di 120 milioni di gigabites ( pari a 120 petabites) e l’acceleratore del CERN ne ha utilizzato 200 per la ricerca del bosone di Higgs!
Su questa tematica all’inizio del settembre 2012 la Massachusetts Big Data Iniziative ha presentato il bigdata@csail per supportare le ricerche necessarie a questa nuova necessità di conservazione dei dati ed a Trieste quasi contemporaneamente si è svolto il Salone Europeo dell’Innovazione e della Ricerca Scientifica organizzato dalla Sissa [28] col più importante editore di pubblicazioni scientifiche libere e gratuite (PloS) per trattare le nuove tematiche emergenti.
Il pericolo che potrebbe comparire è quello di rischiare una formazione di una nuova torre di Babele (ma esistono i traduttori digitalici) o di essere condizionati da un nuovo potere, come quello dei maiali, nuovi padroni della fattoria di Orwell!
Occorre pertanto essere maturi alla condivisione, all’interdiscipinarietà ed alla complessità delle numerose branche della scienza: Fisica, Chimica, Biologia, Medicina, Sanità, Economia, utilizzando idonei e specifici algoritmi e tenendo a mente l’universalità del sapere perché la scienza è di tutti.
A questo fine sono nati o stanno nascendo numerosi siti che affrontano queste esigenze: la ploS.org, rivista open access, il doaj.org, che cataloga 8.000 periodici tutti consultabili liberamente, lo scoap.org, progetto attualmente intenzionale del CERN per la creazione di un modello editoriale open access per la fisica delle particelle; l’elifesciences.org, sito per sostenere la ricerca e che condivide la protesta contro le lobby degli editori scientifici, in considerazione - ad esempio - che la casa editrice Elservier, controlla il 42% dell’editoria scientifica mondiale, e che le Università britanniche per gli abbonamenti sono costrette a pagare 200 milioni di sterline e quelle italiane ottanta milioni di euro l’anno per sopravvivere! Inoltre c’è l’arxiv.org, archivio di pubblicazioni scientifiche di fisica, matematica, informatica e biologia liberamente consultabili online; l’openwtware.org per lo scambio di informazioni nel settore dell’ingegneria, delle scienze biologiche; l’endcodeproject.org, enciclopedia dei componenti del DNA, frutto di 1.600 esperimenti eseguiti da una “intelligenza collettiva”, modello di open science. Anche i comuni mortali al di là del muro che li separa dall’uno per cento dei “padroni” della scienza, possono nella citizen science raccogliere dati, osservazioni, considerare i fenomeni e partecipare, contribuendo attivamente allo sviluppo scientifico.
Viviamo in un mondo in continua evoluzione: mondo pieno di nuovi problemi, mentre le statiche torri universitarie (almeno in Italia) sono piene di Dipartimenti e di beghe paralizzanti!
Il genio esiste, ma è uno ogni milione di individui; ma se uno dei novecentonovantanovemilanovecentonovantanove dotato di un quoziente intellettivo normale si unisce agli altri suoi simili si costituisce, nell’era internet, un sistema che dà luogo all’emergenza di un sistema complesso, di un’intelligenza collettiva molto più efficace e produttiva della semplice somma delle parti.
Nel lavoro online non esiste nessuna divisione statica o preprogrammata, la divisione è assolutamente dinamica e condivisa da tutti; l’unica finalità aggregante è di completare al meglio il progetto. La dinamica pertanto è caratterizzata dalla flessibilità e rapidità, e la sua progressione induce una diffusione in mille rivoli foriera di ulteriori dinamiche positive, aiutata anche dalla serendipità, dipendente dalla contingenza.
La scienza nell’era pre-internet si avvaleva dei congressi come sede di aggregazione e di confronto e, a seconda della convenienza evolutiva, certamente non esprimeva, che in minima parte alcuna reale condivisione, anzi il più delle volte erano occasioni di tensione e di scontri. I congressi erano per quei tempi quanto di meglio, ma erano programmati staticamente e manipolati dai vertici.
Già negli anni settanta, almeno in Italia, si venivano a costituire gruppi di studio nei vari settori scientifici ,sfrondati dal piramidalismo accademico, gruppi che evidenziavano un nuovo modo di vivere la scienza che nasceva dal basso (come qualsiasi dinamica naturale) e dall’interesse reale alle problematiche aggreganti. Ovvio che questa dinamica, come avvenne per il “Gruppo di studio dell’eritrocita” [29], che inizialmente si riuniva ogni sei mesi, poi annualmente, ed in seguito era stata assorbita ed assoggettata al piramidalismo accademico, che riusciva a far suo i lati positivi emergenti.
Con la progressiva diffusione della rete internet il web oltre ad amplificare la comunicazione, gradualmente e velocemente sta divenendo e diventerà sempre più strumento della scienza stessa.
Ad esempio lo studio del cielo stellato, che nel II secolo d.C. fu riassunto e catalogato nell’Almagesto di Tolomeo, per la scienza ufficiale, ma pare che i dati fossero di Ipparco (!), ora sono compresi nell’attuale Almagesto: lo Sloan Digital Sky Survey del New Mexico, che si avvale di un telescopio con uno specchio di 2,5 metri di diametro, munito di un obbiettivo grandangolo capace in una singola immagine di fotografare porzioni di cielo otto volte quella della luna piena.
Dal 2000 ha esplorato ¼ del cielo ed ha fotografato 930.000 galassie! Questo enorme numero è scaricabile dal sito: hptt:/www.sdss.org/collaboration, e ogni cibernauta può non solo estasiarsi dell’infinito spettacolo universale, ma contribuire alla catalogazione, allo studio e può anche proporre interrogativi, anch’essi di estrema utilità per la progressione della conoscenza.
Kevin Schawski e Chris Lintot i due fondatori di Galaxy Zoo erano convinti che le galassie ellittiche fossero le più antiche, ma l’osservazione di 70.000 galassie in sette giorni, lavorando 12 ore al dì, contraddisse la loro supposizione. Per continuare la loro ricerca dovendo osservare 860.000 galassie, ebbero l’idea, nata davanti ad una pinta di birra in un pubb, di progettare un sito, annunciato poi dal popolare programma “Today” della Bbc, col quale chiunque poteva liberamente connettersi e partecipare alla ricerca. I novelli studiosi, chiamati “guardiani dello Zoo” dopo appena sei ore avevano osservato 70.000 galassie. Lo studio portato avanti da dilettanti con una metodica rigorosamente scientifica consisteva nell’osservare le foto sul sito di Galaxy Zoo ed il data base Sdss portò all’individuazione di 200 galassie che presentavano una sfumatura verdognola, mai osservate in precedenza e che furono chiamate “Green pea”. La colorazione verde era dovuta all’ossigeno ionizzato individuato con l’analisi spettrale.
La ricerca fu continuata con dibattiti, discussioni, seminari dai novelli scienziati, che nel frattempo si acculturavano informandosi, studiando e ponendo domande sempre più intriganti. La ricerca è progredita col supporto di 200.000 volontari che hanno classificato 150 milioni di galassie!
Dall’analisi dell’Almagesto attuale: dallo studio del Sdss una delle scoperte tra le mille è stata la prima immagine della Sloan Great Wall, una gigantesca catena di galassie lunga 1.37 miliardi di anni luce: la più grande struttura dell’universo. L’Sdss ha avuto in astronomia un impatto enorme. Il primo articolo pubblicato del 2002 che lo riguardava è stato citato 3.000 volte, in confronto al lavoro di Hawkins del 1995 con 4.000 citazioni! Praticamente l’Sdss merita un posto accanto a Tolomeo, Galileo, Newton e ad altri grandi della scienza di tutti i tempi!
Nel 1995 la Nasa inviò in orbita il satellite Soho (Solar Helioscope Observatory) con la finalità di studiare le comete, perché tutte convergono verso il sole e la loro coda le rende maggiomente visibili, perché prolungata per l’effetto del vento solare. I risultati sono visibili sul sito: http://sungrazen.nre.navy.mil.
Un altro esempio tra i nuovi modelli di studio digitali è l’Ocean Observatory Iniziative per indagare con una rete posta sul fondale dell’oceano Pacifico e lunga 1.200 kilometri dalle coste dell’Oregon alla British Columbia in Canada connessa a fotocamere, termometri, apparati robotizzati idonei a sequenziare i genomi di microrganismi; rete che produrrà un’enorme mole di dati, che all’istante saranno disponibili in rete a chiunque. Poi esiste L’Allen Brain Atlas per la mappatura del cervello umano che studia i geni attivi ed inattivi nelle singole cellule cerebrali in modo da poter ricostruire in forma digitale il nostro cervello. Il programma sarà completato nel 2020, ma i dati iniziali sono liberamente scaricabili da chiunque.
Un ulteriore esempio di scienza collettiva riguarda la risoluzione dell’enigma della forma delle proteine. Sappiamo che le proteine sono strutturalmente determinate dalle sequenze del DNA. E la loro forma rappresenta un problema ancora irrisolto. Per chiarire questo enigma, che continua a rappresentare uno dei misteri della biologia è stato allestito un programma di scienza collettiva chiamato Foldit (http://fold.it), che consiste – udite gente – in un video gioco (!) per comprendere come il DNA possa dar origine alla forma delle proteine. Quando le informazioni vengono trascritte, gli aminoacidi, mattoni delle proteine, inducono un ripiegamento della proteina stessa in base all’idrofilia o alla idrofobia dell’aminoacido trascritto. La forma della nascente proteina assume pertanto una fra le tante collocazioni. E, poiché la situazione non è lineare, ma estremamente complessa per l’influenza che sull’amminoacido si concentrano le forze sia degli aminoacidi viciniori che di segmenti della stessa proteina. I biochimici erano ricorsi al “santo computer” nel tentativo di poter prevedere la forma della nascente proteina. Ma i risultati sono stati deludenti; ogni proteina ha centinaia o migliaia di aminoacidi ed occorre conoscere l’orientamento e le connessioni di ciascuno. Per il numero enorme dei fattori in causa le forme possibili sono in numero astronomico. Nessun computer, nemmeno quelli più potenti, può riuscire a risolvere il problema, anche con l’utilizzo di algoritmi intelligenti. Ma l’ingegno umano a volte non ha limiti: un biochimico David Baker ed un ricercatore di computer grafics Zortan Popovic hanno creato un videogioco che evidenzia una proteina, che dal giocatore può essere ruotata, capovolta, piegata. Minore è l’energia della forma proteica maggiore il punteggio del giocatore, così le forme proteico-digitali in cima alla clasifica hanno una buona corrispondenza con quelle reali! Il metodo funziona a tal punto, che sono stati organizzati diversi concorsi tra dilettanti e professionisti, vinti il più delle volte dai dilettanti.
Dal tempo in cui dagli anni ’80, il manuale di Tom Maniatis [30] troneggiava nei laboratori di genetica molecolare di tutto il mondo, le conoscenze del filamento della vita sono sono incrementate vertiginosamente; a quei tempi il futuro era ancora simile al presente, ma già dopo una decina d’anni sorse la necessità di istutuire un deposito centralizzato dei risultati diuturnamente raggiunti. Sorse la GenBank gestito dal National Center for Biotechnology Information negli Stati Uniti (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/genbank/). Attualmente il genoma umano è disponibile su http://www.ncbi.nlm.nih.gov/projects/genome/assembly/grc/human/index.shtml. La mappa degli aplotipi[31] su: http://hapmap.nncbi.nem.nih.gov. All’inizio la massima parte dei ricercatori erano contrari a questa centralizzazione, perché i propri dati ottenutiti erano considerati di propria appartenenza, in quanto la carriera si fondava sulla pubblicazione della scoperta e la diffusione del proprio lavoro era completamente controproducente. Mors mea, Vita tua! Ma col tempo anche la progressione del proprio lavoro subiva questo effetto limitante generalizzato e l’atteggiamento egoistico gradatamente iniziò a sgretolarsi.
Nel 1996 si svolse alle Bermude una conferenza che sancì il dovere di condivisione ed il principio di divulgazione dei propri dati, pena l’impossibilità di ottenere le sovvenzioni governative per la ricerca. Il National Institut of Healt degli Stati Uniti obbliga infatti i ricercatori a rendere accessibili i propri papers sin dalla data di pubblicazione.
Per far progredire la nostra conoscenza del mondo rendendola più democratica e coinvolgente anche ai non addetti ai lavori è sorto recentemente un colossale progetto idoneo a definire le funzioni del DNA non codificante, che risulta essere responsabile dell’attivazione e disattivazione dei geni codificanti e conseguentemente della quantità dei loro prodotti. Il colossale progetto ENCODE che cataloga le funzioni di ogni singola porzione di DNA; infatti siamo a conoscenza che i due terzi del genoma, inizialmente etichettato “spazzatura” (junk= letteralmente deposito) contiene quattro milioni di interruttori, che sovraintendono all’attivazione ed allo spegnimento dei ventimila geni codificanti.
ENCODE è soprattutto l’espressione più attuale della nascente intelligenza collettiva, frutto di 1.600 esperimenti provenienti dal lavoro di 450 autori di 30 istituti di ricerca. L’organizzazione del lavoro è graniticamente accettata dai partecipanti e consiste nella libera ideazione ed esecuzione degli esperimenti, che vengono poi sottoposti ad un filtro analitico, condensati nei risultati ed alla fine firmati dai responsabili, che alla fine possono essere i promotori di interviste e di dibattiti. Piramidalismo necessario e condiviso, finalizzato solo alla serena riuscita della complessa e difficile organizzazione delle attività svolte. Basilare è che i risultati di questo notevolissimo sforzo anche economico devono essere resi pubblici: i risultati recentemente ottenuti sono stati distribuiti in trenta articoli pubblicati su riviste prestigiose, prima fra tutte su Nature e tutti gli articoli sono liberamente accessibili anche su iPad all’indirizzo: http://www.chefuturo.it/2012/09/il-genoma-raccontato-da-encode-porta-la scienza-fino-allipad/
La scienza libera sarà un bene immenso per l’Umanità, ma rappresenterà un danno per pochi!
Il mondo attuale può venir considerato un computer planetario in fieri; esistono sei miliardi e trecento milioni di telefonini pari a 4,3 miliardi di abbonati (dato ricavato dal rapporto relativo al secondo trimestre del 2012 [32]), mentre tre anni fa il numero era di due miliardi e mezzo di telefonini [33], più di un miliardo di linee telefoniche fisse [34], trenta milioni di server[35]e ottanta milionii di palmari wireless [36], tutti strumenti connessi alla rete, che contiene mille miliardi di pagine [37]. Se calcoliamo che ogni pagina web è collegata mediamente con altre sessanta [38], mentre ogni nostro neurone è connesso con altri mille [39], ne deriva che il nostro cervello è costituito da una rete nettamente superiore, il che continua a farci inorgoglire. Dobbiamo comunque considerare che la nostra mirabile struttura cerebrale ha iniziato il suo assemblaggio nella notte dei tempi, milioni di anni fa, mentre il futuro nascente supercomputer planetario raddoppia le sue connessioni ogni trecentosessantotto giorni, di anno in anno e, poiché la sua nascita è ascrivibile ad una trentina di anni fa: nel 1984 i computer collegati alla nascente rete erano poco più di mille (!), è indiscutibile prevedere che tra pochi decenni la rete del tecnium sarà talmente espansa che potrà autorganizzarsi, poiché rappresenta una struttura complessa, e realizzare una mente planetaria capace anche di far emergere la percezione del sé: l’emersione di una coscienza sovrumana! La rete internet divenire cosciente: espressione di una megapiovra informatica! Oppure, imitando la progressione evolutiva del DNA, la rete potrebbe suddividersi specializzandosi in diversi compartimenti simili alle specie a causa dell’onnipresente contingenza. Non la super piovra, ma tante piovre tentacolari distribuite secondo la legge di potenza! Questa non è fantascienza è un dato concettualmente possibile, anche in considerazione che recentemente si é arrivati a valutare la nostra coscienza nell’ambito della teoria dell’informazione integrata. La coscienza sta per essere chiarita nella sua base strutturale sia nei riguardi dell’informazione che dell’integrazione, e possiamo intravedere la stessa dinamica evolutiva strutturale tra la nostra vetusta, intricata e complessa rete neuronale del mondo del carbonio, paragonandola a quella emergente, tecnologica e planetaria appartenente al mondo del silicio.
Sino a pochi anni fa la coscienza era relegata nei confini della filosofia e della religione, perché non possedeva alcun elemento aggredibile all’indagine scientifica; era considerata col metro del tutto o niente, poi a piccoli passi, le realtà cliniche neurologiche hanno indotto ad inquadrarla in una scala elastica più graduale: dal coma e dal sonno profondo equivalenti alla sua assenza; poi, come la luce dell’alba: i sogni ed infine il risveglio e la veglia, che anch’essa presenta con uno stato variabile di coscienza.
Ma cosa è la coscienza?
E’ uno stato evanescente, radicato in noi, che accomuna tutti i nostri pensieri, tutte le nostre volontà e tutte le nostre azioni, amalgamandole sino a donarci la sensazione del sé, dell’esistere, dell’Io. Potrei dare anche una definizione più generica: è una forma di introspezione, è solo pensiero: il pensiero muto, che ci domina e a volte in contrasto con altri pensieri, ci costringe al paragone, alla valutazione, alla decisione.
E’ indubitabile che lo stato di coscienza dipenda dall’attivazione neuronale in diverse sedi dell’encefalo e dalla loro integrazione. Recentemente è stata proposta un’interessante teoria che propone di tradurre e calcolare in forma matematica sia l’informazione contenuta che l’integrazione tra le parti della corteccia cerebrale. Questa misura è stata etichetata Phi dal suo autore Giulio Tononi [40], che, per chiarire il reale significato dell’informazione la paragona, evidenziandone le diversità esistenti, tra l’essere umano ed un fotodiodo posti entrambi nel buio. Sappiamo che il fotodiodo è un sensore ottico che sfruttando l’effetto fotoelettrico si attiva generando una corrente elettrica, al buio è inattivo; l’uomo viceversa nella stessa stanza buia comprende di essere al buio e la sua corteccia lo informa di questa situazione che viene avvertita da un’infinità di sensazioni, ricordi, paure, curiosità. La quantità dell’informazione in questo caso è massima; il fotodiodo viceversa non ne possiede, né la produce. Per chiarire cosa rappresenti l’integrazione Tononi porta l’esempio di una immagine di una macchina fotografica digitale, in cui l’informazione, in relazione al numero dei pixel è straordinaria, ma, non essendo i pixel tra loro connessi, l’integrazione è nulla. La fotocamera genera molta informazione, ma nessuna integrazione. Ora facilmente possiamo comprendere il valore del Phi che esprime contemporaneamente il valore informativo e l’integrazione che il sistema presenta [41].
Riportando il discorso nei termini anatomo-fisiologici riguardanti lo stato di coscienza, possiamo evidenziare le differenze esistenti tra la corteccia cerebrale ed il cervelletto; questo benché sia costituito da un numero di neuroni (cinquanta miliardi) quasi doppio rispetto alla corteccia, che ne possiede trenta, qualora venga funzionalmente eliminato, non determina né influenza minimamente lo stato di coscienza, perché i suoi neuroni non sono integrati tra loro; ben diversa è la situazione in caso di danno corticale, che eliminando non solo l’informazione, ma anche l’integrazione tra i neuroni corticali, elimina totalmente lo stato di coscienza.
Con una tecnica Tomografica di immagini ad impedenza elettrica (E.I.T.) chiamata F.E.I.T.E.R. (Functional Electrical Impedence Tomography by Evoked Response), che consente di monitorare in profondità l’attività cerebrale e di visualizzarla ad alta velocità, un gruppo di ricercatori[42] sono stati in grado di ricostruire un filmato in forma tridimensionale, che rileva le variazioni che avvengono nel cervello mentre si sviluppa l’azione di un farmaco anestetico: si verifica una riduzione progressiva dell’attività elettrica cerebrale dall’esterno all’interno dell’encefalo. I risultati sono in linea con la considerazione che la coscienza sarebbe dovuta ad una collaborazione efficiente di diversi gruppi di neuroni, che durante l’anestesia non interrompono la loro attività secondo la regola del tutto o niente, ma gradatamente. Alcuni gruppi di neuroni si “addormentano” oppure inibiscono l’attività di comunicazione con altri.
Questo filmato è la dimostrazione visiva che la teoria dell’informazione integrata sia valida e rappresenta, dal punto di vista generale un’ulteriore dimostrazione che la tecnologia serve attualmente anche a chiarire la dinamica e come sia strutturata la nostra coscienza! Del resto la finalità della tecnologia, domanda espressa da Kevin Kelly nel libro: “What Tecnology wants?” [43]. Secondo me, in poche parole il futuro può essere visto sia positivamente che negativamente. Si è sempre di fronte al continuo bivio che la contingenza ci presenta. Come l’uso delle pietre usate per costruire e per uccidere o la dinamite che ha permesso di scavare le montagne e cambiare il mondo nel bene e nel male o la televisione ed Internet stesso, che con la sua tentacolare presenza condiziona il sapere nel mondo rappresentando l’iniziale emersione di un superorganismo tentacolare. Del resto siamo tutti attualmente immersi nella tecnologia, nel “tecnium”, e tutti “tecniumdipendenti”; ma dobbiamo ricordarci, e mi ripeto: che qualsiasi struttura emergente non è controllabili, se non in minima parte, non è ottimale e soprattutto non è prevedibile!
Questa ormai assoluta dipendenza alla tecnologia è causa di una fragilità pericolosa: una tempesta solare può alterare i sistemi satellitari necessari non tanto all’informazione quanto all’orientamento di tutti i mezzi di trasporto mondiali e bloccare le attività del pianeta! Questa fragilità pericolosa, per motivi contingenti, può modificare il percorso evolutivo della tecnologia stessa o di bloccarla e alterare o bloccare la nostra evoluzione, come è spesso avvenuto nel corso del flusso della vita con le tante estinzioni di massa!
Ma come la vita, la progressione ricomincia sempre, al crollo del mucchietto di riso i nuovi chicchi si autorganizzano a formare una nuova piramide.
Nella prima pagina della Prefazione avevo esordito scrivendo: “siamo forniti dei cinque sensi ed il mondo ci appare limitatamente alla nostra possibilità di conoscenza”. Siamo informati direttamente della realtà e di noi stessi dal tatto ed indirettamente dalle vibrazioni che ci trasportano i suoni lontani, le parole e la musica e, tramite la luce osserviamo le forme e i colori permettendoci di osservare i fiori, le stelle e gli occhi dei nostri simili. Noi siamo non solo immersi nel nostro mondo, che ho chiamato “terra di mezzo”, visibile, respirabile, udibile e toccabile, ma siamo anche avvolti dal mondo subatomico che ci ammanta silenzioso e di cui non avvertiamo generalmente l’esistenza. Ora le nostre conoscenze del mondo stanno andando oltre l’osservabile, perché siamo in possesso di tecnologie, che possono incrementare a dismisura le nostre capacità e possibilità conoscitive.
[1] James
Watt (1736-1819) matematico ed ingegnere scozzese.
[2] John D. Barrow .
“The artful Universe”. Oxford University
Press. 1995. Trad. “L’Universo come opera d’arte. La fonte cosmica della
creatività umana”. RCS Libri S.p.A. Milano. 1997
[3] Kelvin Kelly. “What technology
want”.Viking Press N.Y
[4] James, Steven R. Hominid Use of
Fire in the Lower and Middle Pleistocene: A Rewiew of Evidence. Current
Anthropology 30, 1-26, 1989
[5] Weiner S. Evidence for the Use of
Fire at Zhoukoudian , China . Science 281, 251-53, 1998
[6] Quaternary Science Reviews 27, 1733-39, 2008
[7] Science 331, 387,2011
[8] Kevin Kelly in “Waht Thecnology
Want” pag 139
[9]
Charles Darwin in “Darwin. L’origine
delle specie”. Grandi Tascabili Economici Newton pag. 176.
[10] Ad
esempio il Tuca- tuco (Ctenomis Brasiliensis) animaletto simile alla talpa. In
“Darwin. Viaggio di un naturalista
intorno al mondo”. Grandi Tascabili Economici. Saggi. Newton Editore pag 72. Traduzione della
seconda edizione del
1845. Journal of Researches into Natural History and Geology of the Countries
Visited during the Voyage of H.M.S. Beagle round the World.
[11]
Charles Darwin in “Darwin. L’origine
delle specie”. Grandi Tascabili Economici Newton pag 177.
[12] Ullrich-Luten EM, Arnone Mi. E
Coll. “Unique system of photoreceptors in sea urchin tube feet.” P N AS 108,
8367-8372, 2011
[13] Word Consumtion of PrimarynEnergy
by Energy Type and Selected Country Groups (1980-2004) Energy Information
Administration July 31, 2006
[14] Che
si nutre grazie alla luce.
[15] Land M.F. e Coll. “The Evolution of
Eyes”. Annal Review of Neuroscience 15, 1-19, 1992
[16] Jkely Gaspar e Coll. Mechanism of
Phototaxis in marine zooplancton. Nature 456, 395-399, 2008
[17] Arrendt D. e Coll. Science 306,
869-871, 2004
[18] Conway Morris, S. “The Burgess Shale (Middle
Cambrian) Fauna”. Annual Review of Ecology and Systematics 10, 327-349, 1979
[19] Kevin Kelly “What Tecnology Wants” Copyright
2010 Kevin Kelly
[20] “La
rete sociale si autorganizza: il ruolo del web nelle rivolte del nord Africa”.
Valerio Eletti. Conversazione alla seconda edizione del Festival della
Complessità. Tarquinia 25
giugno 2011
[21]
Capacità di rilevare ed interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo
del tutto casuale durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi di indagine.
del tutto casuale durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi di indagine.
[22]
Legge di Linus Torvals.
[23] “Se
no divento pazzo”! in “Sottile è il Signore” A. Pais Bollati Boringhieri
[24] Il
matematico che formulò la congettura con la quale si dimostrava l’ordine dei
numeri primi (pag. 91)
[25] “La
serendipità é la capacità di rilevare ed interpretare correttamente un fenomeno
occorso in modo del tutto casuale
durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi di indagine o, per
essere un po’ frivoli: “cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del
fattore!”
[26] Giulio Einaudi Editore 2012
[27] Filosofo e scrittore statunitense, tecnologo,
speaker di professione è esperto sul come internet sta cambiando il mondo, le
relazioni umane e la società.
[28] Scuola Internazionale di
Studi Avanzati. International
School for Advanced Study.
[29] Fondato dai prof.ri
Girolamo Sirchia di Milano, Paolo Arese e Umberto Mazza di Torino.
[30] Tom
Maniatis Professore di Biologia Molecolare dell’Università del Colorado. Autore
nel 1982 di "Molecular Cloning-A Laboratory Manual",
manuale che ha avuto un enorme impatto sulle scienze della vita.
[31] Aplotipo
dal greco: haplóos= singolo o
semplice) si definisce la combinazione di varianti alleliche lungo un segmento cromosomico contenente loci
strettamente associati tra di loro, e che generalmente vengono ereditati
insieme.
[32] “Traffic and Market Report – On the Pulse of
the Networked Society”. Il traffico dati in mobilità é raddoppiato in dodic mesi!
[33]
http://www.portiore-search.com/ MMFo7-12.html
[34] Central Intelligence Agency, World Communications, world Factbook
2009
[35] Jonathan Koomey Estimating Total
Power Consuption by Server in the U.S.A. and the world. Analytical
Press, Oakland 2007 in
http://enterprise.amd.com/us-en/AMD-Businnes/Technology-Home/Power-Management.aspx.
[36] eMrker,DPA Marker Report: Global
Sales, Usage and Trends. P.1:Cting Gartner Dataquest, 2002, in http://www.
Info-edge.vom/samples/EM-2058sam.pdf
[37] Marcus P. Zillman, Deep Web
Research 2007, in
LLRX, http://www.1prx.com/features/deepweb2007.htm
[38] Andrei Zz. Broder, Mark Najork e Coll.
Efficient URL Chehing for World Wide Crawling
in “Procedeing of the 12th international conference on World Wide
Web” Budapest 20-24 maggio 2003. pag 5 in http://portal.acm.org/citation
cfm.id=775152.775247.
[39] David A. Drachman Do We Have Brain to Spare? In
Neurology 64,12,2005 in http://www.neurology.org.
[40]
Giulio Tononi neuropsichiatra italiano, allievo di Gerald Edelman, attualmente
professore all’Università di Madison del Wisconsin.
[41] In questo caso il sistema è organico, ma il
Phi può essere calcolato anche in un sistema artificiale, tecnologico.
[42]
Guidati da Brian Pollad dell’università di Mancester
al Congresso Europeo di Anestesiologia. Amsterdam. 14 giugno 2011
[43]“Quello
che vuole la tecnologia”. Kevin Kelly. Codice Edizioni. 2011. Libro che
caldamente consiglio per la sua inesauribile capacità comunicativa e
propositiva delle possibili realtà future.
Nessun commento:
Posta un commento