domenica 28 ottobre 2012

25 Noi della famiglia degli ominidi



        25       Noi, della famiglia degli ominidi




        L'uomo (Homo sapiens sapiens, Linneo [1], 1758), chiamato anche essere umano, è una sottospecie di Homo sapiens, un primate bipede appartenente alla famiglia degli ominidi che comprende numerosi generi estinti e sette diverse specie viventi di grandi scimmie. La specie H. sapiens - di origine africana come d'altronde lo stesso genere Homo - è un primate a pelo corto, adattato alla vita terricola, onnivoro e con abitudini alimentari originarie di cacciatore-raccoglitore. La sua distribuzione attuale è pressoché cosmopolita e planetaria.
                                                    “Gli esseri umani sono animali.
                                                                              Possiamo talvolta essere mostri,
                                                                              altre volte individui meravigliosi,
                                                                              ma pur sempre animali.
                                                                          Magari ci piacerebbe pensare 
                                                                               di essere angeli caduti dal cielo,
                                                                               ma in realtà siamo scimmie in posizione eretta.” [2]
                                                                                                                                 Desmond Morris

            


  Condivido questa citazione, ma non la considero completa: noi umani possediamo molto di più, anche se studi recenti di biologia molecolare hanno dimostrato che il genoma dello scimpanzé (Pan troglodytes) [3] è eguale a quello nostro per più del 98 %. La diversità risiede solamente in quell’1,23 %. Questa la differenza tra uomo e scimmia, bipedi che evolutivamente si sono separati solo 5-6 milioni di anni fa [4]. Sino ad oggi gli unici geni individuati, contenuti in quell’1,23 % di diversità, sono i Fox-P2, implicati nell’articolazione del linguaggio. 



  La citazione di Desmon Morris è esatta, ma rappresenta un’ulteriore espressione della mentalità riduzionistica che aleggia in tutte le discipline scientifiche, che per il loro necessario schematismo hanno portato ed inequivocabilmente portano a non far considerare la realtà scientifica nel complesso, ma puntualizzano, come in questo caso, solo la differenza dell’1,23% dei geni tra l’uomo e lo scimpanzé, sottacendo ciò che io chiamo “il profumo della realtà”, cioè quelle differenze a volte essenziali o sfumate, ma comunque reali, che sussistono e che anch’esse al giorno d’oggi possono essere chiarite anche in termini strettamente genetici; infatti quei lunghi tratti del genoma non codificante, che con arroganza venivano definiti DNA spazzatura, si sono dimostrati addirittura gli artefici della regia – dei tempi di comparsa della sintesi - ed in poche parole della organizzazione genetica [5]; la verità è emersa dopo aver messo a punto un dispositivo in grado di misurare le variazioni dell’espressione genica in specie differenti che hanno evidenziato che nei 65 milioni precedenti avvennero pochi mutamenti nei geni dei macachi, orango e scimpanzé, mentre nell’uomo sono avvenuti negli ultimi cinque milioni di anni. Pertanto la maggior parte delle differenze tra l’uomo e lo scimpanzé sono da attribuirsi alla regolazione genetica, non ai geni strutturali, come era stato intuito da King e Wilson [6] sin dal 1975. 


  Prima di iniziare ad illustrare la parte più elevata delle attività e della vita dell’uomo: quelle riguardanti la complessità e l’evoluzione del linguaggio, la più elevata espressione delle attività umane, è doveroso interessarsi alla nostra storia evolutiva e di come, dal punto di vista genetico possa essersi verificata. 

  Parlare di milioni d’anni o dei quattro miliardi e seicento milioni dalla formazione del nostro pianeta ci disorienta, perché numeri tanto elevati sono sì recepiti, ma non compiutamente considerati. La semplice figura a pagina 34 del completo e compiutamente documentato libro: “La culla della Vita” di Willim Schopf, evidenzia in modo chiaro i rapporti temporali della nostra comparsa, rispetto a quella di ogni altra forma di vita e di tutte, dall’inizio della formazione del nostro pianeta, comparati alle ventiquattro ore di una giornata. 

 Iniziamo ad illustrare l’ultimo minuto e 17 secondi (gli ultimi settantasette secondi) dalla nostra comparsa nel tempo geologico delle ventiquattro ore dalla formazione della terra. I dinosauri vissuti e poi scomparsi 65 milioni di anni fa, nell’orologio immaginato da Scopf, sono riportati distanti da noi appena 1 ora e 3 minuti e 17 secondi fa! Il nostro cammino evolutivo in quanto mammiferi è durato 19 minuti e 43 secondi essendo iniziato alle 23 e 39” dell’orologio paleo-temporale. E’ ovvio che gli ultimi 77 secondi rappresentano e comprendono la nostra storia, iniziata circa sei milioni di anni fa e ci riporta nella Rift Valley, dell’Africa Orientale, dove sono stati ritrovati i più remoti reperti paleontologici della nostra specie: quelli di Ardi [7] e poi quelli di Lucy [8], quelle prime orme di bipedi ritrovate a Laetoli, che documentano il cammino, non contemporaneo di due individui, ma che a me piace immaginare essere quelli di una madre col proprio figlioletto affiancato, che hanno iniziato il nostro cammino di tre milioni e quattrocento anni fa. Da quella passeggiata sulla cenere eruttata dal vicino vulcano Sadiman [9], il lungo cammino temporale dei nostri antenati deve essere riassunto per necessità in poche pagine, che ci racconterà la diversificazione e l’espansione del genere Homo sulla terra. Quei primi passi della nostra stirpe documentati dalle impronte dei due ominidi bipedi nel fango di Laetoli, in Tanzania [10], oltre tre milioni e settecentomila anni fa! Erano le impronte su ceneri vulcaniche di due ominidi che camminavano affiancati con un’andatura del tutto analoga alla nostra. I “due podisti” appartenevano alla specie Australopitecus afarensis. Ad Hadar in Etiopia in questi ultimi quindici anni sono stati dissepolti 250 frammenti ossei appartenenti a 17 individui di questa specie in uno scavo ribattezzato “della prima famiglia”. Tra i vari reperti ossei è stato ritrovato un quarto metatarso con forma arquata caratteristico di un piede che permette la deambulazione bipede [11]

 Tutti i continui mutamenti dovuti alle variazioni climatiche ed ambientali contingenti, alle modificazioni alimentari dovute all’introduzione dell’alimentazione carnea, prima come sciacalli, poi con l’uso del fuoco con la cottura degli alimenti, tutti e tanti altri elementi contingenti, come ad esempio vivere nei pressi delle coste marine, che sicuramente ha favorito l’introduzione nella dieta di grassi essenziali per lo sviluppo e la funzione del nostro cervello [12]. Tutte situazioni che hanno concorso alle modificazioni metaboliche, fisiche e funzionali del nostro organismo. 

Il primo ad ipotizzare che gli uomini fossero evoluti da un antenato comune alle scimmie fu Charles Darwin, a metà ottocento, che definì col termine di “Selezione naturale" la dinamica evolutiva. Questa teoria è un enunciato dalle straordinarie implicazioni in una veste meravigliosamente semplice, che ha superato per un secolo e mezzo le prove di indagini e di verifiche. Fondamentalmente giustifica il cambiamento evolutivo delle specie come esito di una "lotta" tra organismi per il successo riproduttivo, condizionato da un maggior adattamento delle popolazioni all’ambiente anch’esso determinante. Le diverse strategie per il successo riproduttivo si esplicano con un’ampia gamma di attività e comportamenti: come, ad esempio, un accoppiamento più precoce, più frequente, o rilevando una migliore cooperazione tra i partner nell'allevamento della prole. Il cambiamento evolutivo é multifattoriale come aveva affermato lo stesso Darwin nell'introduzione a “L'origine delle specie”, enunciando: "Sono convinto che la selezione naturale sia stato il più importante, ma non l'unico, fattore di modificazione". Vi sono infatti problemi biologici e ambientali, a cui dobbiamo aggiungere le modificazioni genetiche dovute alle sostituzioni delle singole coppie di basi del DNA, tutti fattori casuali, tra cui, ad esempio, quelli astronomici, che hanno determinato estinzioni in massa, cancellando porzioni considerevoli di comunità vegetali e animali nella storia del nostro pianeta. Nella storia della Terra vi sono state cinque grandi estinzioni di massa, in cui sono scomparse ogni volta almeno il 65% delle specie. In un caso, nel corso della crisi del Permiano, 245 milioni di anni fa, sparì addirittura il 96% delle specie. Tuttavia dopo ogni crisi, la biodiversità è riesplosa e, in breve, il numero delle specie ha recuperato la sua antica abbondanza. E’ questo un lato della nostra storia evolutiva in gran parte poco conosciuto e non ancora compiutamente valutato, è il lato oscuro della complessità del mondo. Le catene e le reti di eventi sono state e sono tanto complesse, così ricche di elementi casuali e caotici, così irripetibili, che per essere comprese non possiamo avvalerci dei modelli standard della semplice previsione e duplicazione, unici elementi che il determinismo ci ha abituati a considerare. Adesso, ad esempio, stiamo vivendo la sesta estinzione di massa, senza esserne consci, estinzione, che determina ogni anno la scomparsa di 30.000 specie (tre ogni ora) con una velocità di molto più elevata di quelle del passato, tanto che nel giro di un secolo il 25% dell’intero patrimonio di biodiversità potrebbe sparire e, in cinque secoli, scomparirebbero quasi tutte le forme viventi! Nel passato la fase successiva ad un’estinzione era caratterizzata da una fioritura di nuove specie, che iniziava quando la causa dell’estinzione era passata. Ora invece, poiché il movente è essenzialmente coadiuvato dalla presenza dell’uomo, con la sua crescita demografica e con le sue attività antiecologiche, la rinascita è tutta avvolta nel nebuloso e incerto futuro! 

  Se le differenze del numero dei geni tra l’uomo e lo scimpanzé è poco più dell’1%, le differenze fenotipiche sono evidenti e consistono, se analizzate compiutamente in tante piccole differenze. Questo dato inequivocabile ci deve far sospettare che i geni sono sì importanti, ma non sono tutto, come per anni si è creduto; alla fine di questo capitolo questo tema verrà sviluppato, quando accennerò alla biologia evolutiva dello sviluppo, all’Evo-Devo, che chiarisce come l’ambiente influenzi lo sviluppo biologico. 

  Ritornando alle differenze fenotipiche tra l’uomo e lo scimpanzé, l’ominide a noi strutturalmente più vicino, le diversità da segnalare sono: le falangi nelle scimmie sono ricurve, l’osso piriforme allungato, la cassa toracica è svasata alla base, le articolazioni delle spalle molto mobili e gli arti posteriori relativamente più corti rispetto a quelli poi divenuti inferiori degli umani. Il loro cervello pesa 400 grammi, il nostro 1.400. L’acquisizione del bipedismo e del portamento eretto ha determinato numerose conseguenze: la perdita dell’opponibilità dell’alluce e della prensione delle dita dei piedi; la liberazione della funzione di appoggio degli arti anteriori rese le mani i primi utensili del futuro Homo, pronte per essere utilizzate a raccogliere con destrezza crescente le nocelle e le bacche, per sollevare i piccoli, per lanciare le pietre, per cacciare, costruire il giaciglio e fabbricare strumenti litici e, soprattutto, ha aumentato considerevolmente la capacità a spostarsi con l’uso delle gambe, benché la deambulazione sia presente anche nelle scimmie, ma da loro non può essere mantenuta che per poco tempo: è l’uomo che ha conquistato il mondo! Anche se il bipedismo era già presente sei milioni di anni fa; la morfologia dei femori di Orrorin tugenensis [13] suggerisce una biomeccanica dell’articolazione dell’anca adatta all’andatura bipede. 

  Il nuovo assetto statico del tronco ha modificato la posizione del bacino determinando sia la posizione durante la copula che un diverso orientamento del canale del parto con la conseguenza che il nascituro per poter venire alla luce, tempo prima del parto, deve rigirarsi nell’utero. Inoltre per lo sviluppo del cervello, che avviene anche dopo la nascita il neonato non è in grado di sostenersi e in certo qual modo essere indipendente come avviene in tanti mammiferi: un puledro ad esempio subito dopo la nascita è già in grado di sostenersi e di seguire autonomamente la madre. Negli umani invece questa situazione di immaturità determina di conseguenza la necessità di assidue cure parentali da parte materna, favorendo lo stretto rapporto interpersonale, che induce l’aumento della complessità cerebrale del neonato, essendo l’interscambio personale e la socialità, fattori che più degli altri correlano con lo sviluppo intellettivo in varie specie di primati moderni, come è stato dimostrato da numerose ricerche. 

 Il cervello umano è, rispetto al peso del corpo, venticinque volte maggiore di un generico mammifero dello stesso peso; il cervello, a partire da due milioni e mezzo di anni fa, iniziò il suo incremento volumetrico dovuto alla minor compressione laterale del cranio da parte dei muscoli masticatori per l’inattivazione del gene MYH16; questa inattivazione avvenne poco prima e in corrispondenza della presenza dell’Homo Erectus Ergaster 2,5 milioni di anni fa. Sembra inoltre che l’espressione evolutiva del cervello umano sia correlata con il numero di copie di una specifica unità (dominio) DU1220[14] all’interno di una proteina: l’uomo ne possiederebbe 270 copie, lo scimpanzé 125, il gorilla 99 ed il topo uno sola. Lo sviluppo del cervello sarebbe correlato anche all’interno della popolazione umana. Già nel 2006 Erika Chek [15] aveva prospettato un rapporto tra questo dominio e le funzioni cognitive. Nel 2009 Dumas e Sikela [16], oltre a correlare il numero delle copie allo stato evolutivo del cervello avevano evidenziato una sua diminuzione in numerose malattie associate ad una disfunzione cognitiva: autismo, ritardo mentale, microcefalia e schizofrenia. 

 Un altro gene coinvolto nella diversità volumetrica dell’encefalo è il SRGAP2 che risulta necessario per la migrazione neuronale e la morfogenesi del cervello [17]; delle quattro copie del gene, localizzato sul cromosoma 1, tre non sono esattamente eguali all’originale e la SRGAP2C [18] codificherebbe per una proteina funzionante e la mutazione: la mancanza di una minuscola porzione del del gene originale sarebbe avvenuta 2,4 milioni di anni fa prima della comparsa del genere Homo dotandolo di una capacità cranica superiore alle australopitecine. La proteina codificata non solo blocca l’azione del gene originale, ma aumenta le connessioni tra i neuroni favorendo la crescita delle diramazioni dendritiche [19]

  Il 25% dell’energia ricavata dall’alimentazione è consumata dal cervello umano, rispetto all’8% dello scimpanzé e di conseguenza ha dovuto sottrarre risorse dagli altri organi esigendo anche una dieta ricca di proteine animali e l’utilizzazione successiva di alimenti cotti che ha rappresentato un ulteriore vantaggio energetico alimentare. 

 Tra le scimmie e l’uomo ci sono differenze anatomiche rilevanti per quanto concerne l’apparato vocale e fonetico: la laringe nell’uomo è collocata più in basso consentendo l’emissione di un’ampia gamma di suoni, ma impedisce di respirate e deglutire contemporaneamente, mentre lo scimpanzé ha la laringe ubicata nella parte alta del collo può respirate e deglutire contemporaneamente, ma la gamma dei suoni è certamente inferiore. 

 E’ indubbio che le somiglianze delle scimmie antropomorfe ed in particolare degli scimpanzé ed il bonobo con noi umani sono evidenti e riguardano non solo il DNA, le emoglobine e l’anatomia, ma sono palesi le conformità comportamentali nella sessualità, nelle cure parentali e nella strutturazione familiare e sociale; inoltre posseggono l’intelligenza nel risolvere problemi e prendere decisioni in seguito a ragionamento e utilizzano anche semplici strumenti: bacchette per poter prendere nelle cavità dei formicai le formiche (loro leccornia) o sassi per rompere le nocelle, ma soprattutto la capacità di comunicare, anche in mancanza del linguaggio parlato. Le similitudini sono di ordine comportamentale, sociale e culturale. Cultura intesa come capacità di trasmissione di informazioni e di comportamenti fra individui; l’etologo Franz de Waal ha persino evidenziato i fondamenti della morale e dell’altruismo in diverse specie di scimmie raccontando, a tal proposito, che il bonobo Kuni dello zoo di Treycross in Inghilterra raccolse uno storno tramortito dall’impatto, mentre volava, contro il vetro del suo recinto: con delicatezza provò a rialzarlo, ma l’uccellino agitava a malapena le ali; poi Kuni, salito sul ramo più alto di un albero, dopo avergli disteso le ali tentò di farlo volare come fosse un aereoplanino di carta; al primo tentativo non riuscì, ma, alla fine della giornata lo storno si era ripreso e volò via sano e salvo! Recentemente nel Senegal meridionale un team dell’Università dello Yowa, guidato da Jill Pruetz [20] ha documentato che gli scimpanzé di quella regione mostrano comportamenti simili a quelli che i nostri antenati possedevano ai primordi del loro iter evolutivo: sono capaci di forgiare lance appuntite da utilizzare per la caccia e si riparano dal caldo torrido nelle cavità naturali della zona ove socializzano, allettati dal fresco delle grotte; del resto il termine Pan troglodites significa appunto “abitante delle grotte”. 

 Una ricerca condotta da Elisabeth Brannon e Jessica Cantlon della Duke University di Durham pubblicata sulla rivista on line PloS Biology [21] ha dimostrato che le scimmie sono in grado di eseguire semplici operazioni matematiche; i due macachi femmine Feinstein e Boxer precedentemente istruite e sottoposte ad una preparazione in cui erano abituate a valutare un numero ridotto di somme fra oggetti (1+1, 2+2, 4+4). Nell’esperimento erano valutate le risposte delle addizioni di gruppi di numeri differenti tra loro. Lo studio ha dimostrato la capacità mentale dei due macachi con prestazioni molto simili a quelle dei 14 studenti di 23 anni. I risultati finali sono stati sorprendenti, entrambi i gruppi hanno risposto entro un secondo: risposte esatte nel 76% per i due macachi rispetto al 96% degli studenti! Lo studio ha messo in evidenza che gli errori degli umani e dei macachi erano simili: più frequenti quando nelle due operazioni da selezionare c’erano gruppi con un numero quantitativamente simile. Questo dimostra che noi umani ed i macachi condividiamo un sistema cognitivo non verbale per l’aritmetica simile, che riflette il legame evolutivo delle rispettive facoltà mentali. 

 Si è sempre detto che la memoria dell’elefante è superiore a quella dell’uomo; ora c’è la dimostrazione scientifica che noi siamo certamente battuti dagli scimpanzé. L’esperimento ha riguardato uno scimpanzé di nome Ayumu che ha sfidato nove ricercatori volontari in una prova che consisteva nel memorizzare la successione di nove numeri che apparivano in sequenza su di uno schermo televisivo e di digitare i numeri corrispondenti con lo stesso ordine di comparsa. Ayumu è stato il vincitore assoluto perché è riuscito a ridigitare la stessa sequenza nell’80% delle prove, mentre gli umani, anche se allenati, solo nel 40%. Secondo Mtzusawa [22] coautore dello studio pubblicato su Current Biology l’uomo ha sacrificato buona parte della memoria visiva per sviluppare l’area del cervello dedicato al linguaggio. 

 Sin da quando, 7 – 15 milioni di anni fa, è cominciata la divaricazione degli ominidi dalle scimmie antropomorfe, il linguaggio umano ha iniziato ad evolversi. Il linguaggio, tramite le parole, accomuna, associa e rappresenta un collegamento culturale tra gli individui, ma non è l’unico, perché è preceduto da una forma comunicativa che si origina con la mimica del volto, la gestualità, millenni prima del suo completo sviluppo. Non a caso i bambini, come le popolazioni più primitive, nell’esprimere le proprie idee, le rafforzano con la gestualità tutta “meridionale”. L’ulteriore sviluppo del linguaggio con certezza si è manifestato 50.000 anni fa, quando il genere Homo Sapiens ha iniziato stabilmente a seppellire i morti ed ha dimostrato di possedere capacità simboliche, dimostrate dalle raffigurazioni antropomorfe o zoomorfe e dalla realizzazione di manufatti: collane, statuine e strumenti musicali. I più antichi manufatti provengono dalla grotta di Fumane e Chauvert ed i più recenti da Altamira e Lescaut 50.000 anni fa, dopo diecimila anni dal periodo Aurignaziano, nome derivato dal sito di Aurignac in cui sono stati rinvenuti manufatti di pietre abilmente scheggiate, scalpelli, punteruoli e coltellini affilati, tutti strumenti che del resto già da milioni di anni prima l’Homo Abilis, con una capacità cranica di poco più di 600 ml, aveva iniziato a modellare rudimentalmente, foggiando pietre e ciotoli in primitivi strumenti per scuoiare le pelli, raschiare le carni dalle ossa delle carcasse di animali, che ancora non era in grado di cacciare. Oltre alla capacità di forgiare strumenti litici necessari per poter facilmente cacciare, tagliare e difendersi, l’uomo ha iniziato ad essere tale quando ha avvertito ed ha utilizzato il pensiero simbolico: il rispetto dei defunti, la sepoltura dei propri cari, il sentimento verso il proprio simile non derivante solo dalla necessità biologica riproduttiva, ma dall’aiuto verso il debole, l’ammalato, in parole povere quando l’uomo ha sviluppato la parte migliore del suo essere uomo: “l’umanità”. Il ritrovamento dei resti dell’uomo di Sanidar in una grotta dell’Iraq nordorientale ove in seguito furono trovati nove scheletri, dimostra che i Neanderthal seppellivano i loro defunti ornando le tombe con dei fiori; l’uomo di Shanidar era privo di un braccio, aveva delle gravissime lesioni cranio-facciali, tanto da potergli sicuramente diagnosticare una lesione oculare ed una neurologica, con sicure conseguenze motorie all’emisoma controlaterale. Con un solo occhio, con l’unico braccio destro, essendo il sinistro sicuramente inefficiente, per sopravvivere ebbe sicuramente bisogno dei suoi simili. Sempre a Sanidar sono state trovate indizi dell’uso medicinale di alcuni tipi di piante [23]. Le cure prestate ai traumi di questo individuo: Shanidar I di 40-50 anni, mostrano che i Neanderthal si occupavano dei loro anziani e dei loro malati, oggetto di premure dell'intero gruppo. Il Shanidar II era un maschio adulto, probabilmente morto per una caduta poiché presenta fratture multiple sulle ossa dello scheletro e del cranio. Esistono prove evidenti che questo individuo ricevette una sepoltura rituale tramite l'impilamento di alcune pietre lavorate sulla sua tomba. 

 Il sette aprile 2005 su Nature il direttore del museo di stato della Georgia ha comunicato di aver rinvenuto un teschio e l’osso mandibolare di un Homo erectus edentulo [24]: il reperto dà sicuramente prova che la cultura della solidarietà iniziava ad essere presente in quei nostri progenitori di un milione e settecentomila anni fa; il reperto rappresenta il più antico ominide di cui si ha traccia fuori dall’Africa ed è stato ritrovato a Dmanisi, in Georgia. 

 Analizziamo ora anche le evidenti diversità tra l’uomo e lo scimpanzé. L’unicità umana per i più dipende dall’uso delle mani e del cervello: le prime come arnesi che ci permettono di afferrare, porgere e modificare gli oggetti, mani che anche le scimmie utilizzano con minor destrezza, ed il nostro cervello, mirabile rete neuronica, che ci consente di ascoltare, percepire, muoverci e di ragionare, pensare, ricordare e fantasticare sino a chiederci il perché delle cose e del mondo, funzioni alcune delle quali presenti sicuramente anche nelle scimmie, ed altre che non abbiamo nessun criterio per escluderle del tutto. La cultura dello scimpanzé è una cultura dell’immediato, l’informazione è trasmessa da padre a figlio, come gli oranghi che trasmettono fedelmente le informazioni di generazione in generazione, sviluppando in tal modo un apprendimento sociale [25], simile a quella dei nostri lontani predecessori all’inizio della nostra lunga e tormentata evoluzione; se comunque osserviamo alcuni comportamenti gestuali degli scimpanzé, comprendiamo l’essenza della loro comunicabilità: la gioia, il disinteresse, la rabbia, l’indifferenza e la loro furbizia, capacità, che nel tempo si é modificata con il linguaggio, che abbiamo raggiunto, poi ampliata con la pittura, con l’uso della scrittura, creando un ponte, un tramite di una rete “com’è piccolo il mondo”, al di là della propria generazione in un crescendo che ci rende curiosi di tutte le trame della realtà. A cui noi dobbiamo dare risposta con rigore scientifico, consci dell’atmosfera culturale non sempre idonea che ci condiziona, e giustificando in parte i retaggi dell’imposizione e della visione paternalistica, mistica e autoritaria, che siamo ora in grado scientificamente di confutare. Inoltre la capacità di comunicare posseduta dalle scimmie, anche in mancanza dell’uso della parola, è una somiglianza con gli umani a dir poco sbalorditiva. Ricordo, inoltre, che il Q.I. di uno scimpanzé è simile a quello di un bambino di 2-3 anni. Il fondamento che è alla base di quanto sin’ora detto trova la sua giustificazione neurofisiologica nell’individuazione dei “neuroni specchio”, che possediamo in comune con gli scimpanzé. 

 Si è sempre pensato che le aree motorie fossero cabine di regia destinate a compiti essenzialmente esecutivi: a loro volta coordinate ed istruite da ordini superiori. Questa opinione derivava da una concezione piramidale, frutto del determinismo. 

 Ora sappiamo che questi neuroni si attivano in relazione non solo ai singoli movimenti, ma ad atti motori finalizzati alle azioni da svolgere: l’afferrare, il prendere, il manipolare, il tenere. Pertanto il rigido confine – espressione di uno schematismo preconcetto – tra i processi percettivi, cognitivi e motori si è rivelato artificioso in quanto la complessità e l’integrazione esistente determinano l’unitarietà del sistema che nell’esplicare l’azione trova l’essenza del suo significato. 

 Conoscere gli altri, le loro azioni ed anche le intenzioni altrui, rappresentano il risultato che si verifica sin dal momento iniziale e dipende dal proprio patrimonio motorio posseduto. I neuroni specchio in altre parole consentono di correlare i movimenti osservati a quelli già acquisiti in modo da determinare il significato del movimento; il tutto senza far ricorso ad alcun ragionamento, ma basando il significato solo sulle proprie esperienze motorie. 

 L’imitazione, l’apprendimento gestuale e verbale dipende dai neuroni specchio e analogamente la possibilità che possediamo di cogliere le emozioni altrui: la percezione del dolore e del disgusto attivano infatti le stesse aree cerebrali coinvolte quando siamo noi stessi a provarle. 

 Anche gli scimpanzé tra loro sicuramente usufruiscono dei neuroni specchio; è stato dimostrato [26] che riescono ad imparare una tecnica particolare per procurarsi il cibo seguendo l’insegnamento sociale di un leeder, anche se la tecnica non è la più ottimale. Credo che questa capacità relazionale che si manifesta tra noi e le scimmie, due bipedi separati da milioni di anni, sia un ulteriore e considerevole elemento per affermare la nostra a dir poco stretta parentela. 

 Su questo tema recentemente si è svolta a Trento [27] presso il Museo tridentino di scienze naturali la mostra: “La Scimmia nuda. Storia naturale dell’Umanità” dal titolo ripreso dell’opera del famoso zoologo Desmond Morris e pubblicata nel 1969. L’evento culturale ha illustrato il percorso evolutivo del genere Homo seguendo il lungo cammino iniziato nella savana africana circa duecentomila anni fa ed inoltre ha esposto i primi strumenti di selce, caratteristici delle differenti fasi evolutive e i manufatti sino ad evidenziare le sembianze dell’uomo di Neandertal ricostruite con precisione e realismo. Il percorso per nulla lineare di come la nostra specie si è evoluta è simile alla crescita di un cespuglio, le cui radici si perdono nel Miocene medio [28], con rami di ominidi che pare abbiano anche convissuto temporalmente e che è ancora in fieri, benché le differenze attuali delle cosiddette “razze”, non vengano in alcun modo dimostrate e servano solamente alla discriminazione del proprio simile ed alle barbarie che ne derivano. Sono state anche mostrate le violenze etniche ed i genocidi del passato e del presente e, paventati quelli del futuro. 

 Molti primati in cattività sanno disegnare con la matita, il pennarello o con le dita. Famose sono le opere di due scimpanzé: Congo e Betsy; i loro dipinti non rappresentavano solamente una curiosità insolita, ma la loro bellezza era ampiamente riconosciuta. Nel 1957 i dipinti furono onorati di una mostra al London Contemporaney Art e nel 2005, insieme a quelli del gorilla Sophie e dell’orango Alexander furono venduti e le loro “opere” continuano a riscuotere successo. Picasso stesso appese ad una parete della sua abitazione un Congo! 

 L’attività artistica delle scimmie non sembra avere una particolare funzione, se non quella ludica di passatempo. Infatti i nostri cugini ominidi in cattività si annoiano e sono portati all’imitazione, ed anche in questo dimostrano di essere nostri parenti! 

 Benché ci siano sostanziali differenze tra l’arte umana e quella delle scimmie non dobbiamo negare di considerare di essere di fronte ad un innegabile terreno comune, rappresentato certamente da un senso estetico già in loro possesso. 

 Nel 1954 il famoso etologo Desmond Morris iniziò una ricerca sulle origini dell’estetica studiando i dipinti di Congo e dimostrò che i primati sono in grado già di elaborare semplici giudizi sul piano estetico. Spontaneamente le pennellate di Congo erano ben equilibrate, proporzionate allo spazio disponibile, tanto che la produzione grafica attirò l’attenzione non solo degli etologi, ma persino dei critici e storici dell’arte. Nei suoi dipinti si riscontrano alcuni temi visivi anche ricorrenti nei disegni degli scimpanzé: come il triangolo ed il vortice. Tali figure sono state confrontate con analoghe prodotte dai bambini di pochi anni; sembra che entrambi gli ominidi producano in effetti immagini simili, almeno fin tanto che i nostri piccoli non raggiungono quell’età in cui cominciano a disegnare immagini realistiche, confine che nessuna scimmia è mai riuscita a superare. Solo l’arte umana è in grado di riprodurre la realtà. 

 La comprensibile reticenza di Darwin a sottacere e a non divulgare inizialmente la sua teoria dell’evoluzione riguardante l’Uomo, fu determinata non solo dall’impatto che di per sé poteva provocare, ed in effetti provocò, ma dall’ambiente storico, religioso e familiare da cui era circondato e che certamente non era nemmeno il più idoneo all’evoluzione del pensiero. Da allora sono passati centocinquanta anni e ancora, seppur in assenza di qualsiasi evidenza scientifica (mai ricercata) ottuse correnti di pensiero, non aperte alle verità scientifiche anche se dimostrate dai fatti, contrastano questa evidenza evolutiva come residuo di inquisitorie memorie. 

 Fu Thomas Henry Huxley, definito “il mastino di Darwin” che applicò per primo la teoria dell’evoluzione al genere umano, sostenendo che discendiamo dalle scimmie antropomorfe e solo dopo otto anni dalla pubblicazione di “Evidence a sto Man’s Palace in Nature” Darwin scrisse “L’Origine dell’Uomo”; in quel trattato affermava che i nostri parenti più prossimi sono gli Scimpanzé ed i Gorilla e che le ulteriori prove evolutive sarebbero state trovate in Africa. Perché a quel tempo gli unici reperti paleontologici scoperti in Europa Occidentale appartenevano ai Neanderthal. L’atmosfera culturale che si respirava allora era piuttosto limitata e chiusa, tanto è vero che quando nel 1856 furono rinvenute le ossa fossili di un Neanderthal di aspetto umano, ma diverse da quelle degli uomini moderni per robustezza e spessore, il grande anatomo-patologo R. Wirchow [29] le attribuì ad una malattia degenerativa! 

 I Neanderthal avevano un aspetto fisico di un uomo di altezza media, erano molto robusti, tozzi e la loro fisionomia era assolutamente tipica presentando uno spiccato prognatismo con mento sfuggente e con le regioni mascellari rigonfie e zigomi pronunciati. Il loro cervello aveva le stesse dimensioni, se non maggiori, di quello del Sapiens. La loro conformazione corporea era certamente in rapporto al clima glaciale che consentiva di ridurre le superfici cutanee in modo da limitare la dispersione di calore. 

 Erano abili a forgiare le selci con la tecnica definita Musteriana [30]; cacciatori di grandi erbivori, che attiravano in trappole naturali e vivevano nelle grotte o in capanne costruite su palafitte. Durante la loro storia evolutiva, che si svolse interamente in Europa e nel vicino Oriente, durante le glaciazioni del paleolitico medio ed inferiore, che interessarono tutta l’Europa i Neanderthal iniziarono a seppellire i propri defunti con oggetti a scopo rituale, dimostrandoci di aver iniziato a possedere quelle capacità atte ad interpretare la propria esistenza al di là della semplice sopravvivenza quotidiana. 

 Un quesito che per anni ha interessato i paleoantropologi consisteva nella domanda se le due specie del genere Homo: i Neanderthal ed il Sapiens si fossero incrociati, soprattutto considerando sia la sovrapposizione geografica che quella temporale delle due popolazioni tra i 130.000 e i 30.000 anni fa. Finalmente l’arcano, dopo tante controversie, è stato chiarito da Svante Pabo del Plank Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia e da uno stuolo di ricercatori [31] che hanno ottenuto la prima lettura della sequenza del DNA nucleare di tre donne Neanderthal ritrovate in Croazia e datate tra i 38.000 e i 44.000 anni fa. Le sequenze di circa due milioni di coppie di basi sono state confrontate con quelle di cinque femmine umane moderne, di due europee, una cinese, e due africane. I risultati preliminari hanno indicato che segmanti del DNA nendertheliano sono presenti nelle due europee e cinese, ma non nel DNA delle due africane. 

 Da uno studio recente comunicato al meeting annuale dell’American Ass. of Physical Anthropologysts di Albuquerque del New Mexico, effettuato su 2.000 soggetti umani moderni si è stabilito che gli incroci tra le due specie sono avvenuti 60.000 e 45.000 anni fa. Il genoma dei Neanderthal conteneva i geni Fox P2 del linguaggio ed erano intolleranti al latte e la loro carnagione bianca e con capelli color castano-rossi. Ma quale è stata la causa dell’estinzione dei Neanderthal? L’uomo di Neanderthal, il più prossimo dei nostri parenti, che ha dominato l’Europa e l’Asia occidentale per oltre 200.000 anni ad un certo punto meno di 28.000 anni fa è scomparso. Da tempo gli scienziati discutono sulle possibili cause che ne ha determinato la fine. Tra le più recenti teorie sulla loro estinzione ci sono i cambiamenti climatici e alcune sfumate differenze biologiche e comportamentali che potrebbero aver dato agli esseri umani moderni un vantaggio sui Neanderthal, nostri vicini parenti! 

 Attualmente le affermazioni e le previsioni di Darwin non solo sono state suffragate e convalidate da abbondanti testimonianze fossili, ma soprattutto dalle indagini genetiche il cui substrato rappresenta il nesso, la continuità della nostra evoluzione e trasformazione dai nostri predecessori. 

 La storia evolutiva umana si dipana in un arco di tempo che inizia dai 5 ai 7 milioni di anni fa, seguendo un percorso assolutamente non lineare, inizialmente paragonato ad un albero, che l’evidenza scientifica ha dimostrato essere un cespuglio, come una rete discontinua i cui nodi si diffondono in contesti diversi, che a loro volta, per la contingenza, li plasmano o li interrompono. La realtà paleontologica, la fotografia dell’evoluzione, che ritroviamo negli strati di roccia e nelle riparate caverne, ha fissato nel tempo fossili di ventitre specie e umane, a volte uniche, a volte nello stesso periodo in siti diversi, a volte nello stesso territorio e nello stesso periodo. Quest’ultima evenienza pare si sia verificata in Siberia, infatti, recentemente in una grotta della cava Denisova nei pressi dei monti Altai, nella Siberia meridionale ai confini con la Mongolia, è stata ritrovata una falange di un ominide da cui è stato possibile sequenziare il genoma di quell’individuo, poi risultato di sesso femminile. Ma l’importanza del reperto, oltre al fatto che ci stiamo abituando all’archeo-genetica o paleo-genetica, si basa soprattutto sulla dimostrazione che non apparteneva né ai Neanderthal, né ai Sapiens. Del suo genoma [32] sono stati individuate 16.569 basi dei 3,2 milioni, che saranno sequenziali sino alla fine dell’anno [33]; ma sin da ora il reperto pare essere di un individuo di una classe diversa. È un antenato sia di noi umani che dei Neanderthal. Il genoma mitocondriale dei Neanderthal differisce da quello dell’Homo Sapiens per 202 posizioni nucleotidiche, mentre quello della cava di Altai per 385 posizioni. Queste differenze implicano che l’antenato siberiano si era staccato dall’albero “famiglia umana” un milione di anni fa, molto prima della scissione tra l’uomo Sapiens e il Neanderthal. Il genere Homo si è originato in Africa, e iniziando a partire da 1,9 milioni di anni fa l’Homo Erectus si è diffuso in tutto il mondo; le scoperte archeologiche hanno evidenziato che dall’Africa ci sono state in seguito altre due migrazioni: quella dei Neanderthal tra 500 mila e 300 mila anni fa e quella del Sapiens, avvenuta 50 mila anni fa. Nello stesso livello stratigrafico del reperto della cava Desinova è stato rinvenuto un braccialetto lucido con un foro [34]. I campioni del suolo della grotta hanno permesso di datare i reperti tra i 48mila ed i 30mila anni fa, quindi l’ominide di Altai potrebbe essere venuto in contatto sia con i Neanderthal, i cui resti sono stati rinvenuti in una grotta a 100 kilometri di distanza, sia con i Sapiens, che frequentano quella zona da più di 40mila anni. Praticamente con i reperti ritrovati nell’isola di Flores in Indonesia questo sarebbe il quarto ominide di quel periodo. Certo è che dobbiamo aspettare i risultati dello studio del genoma nucleare e di ulteriori reperti archeologici, ma le prospettive sono entusiasmanti. Ed è questa una dimostrazione che sono esistiti numerosi rami del “cespuglio umano” degli umani, che è pieno di rami secchi sepolti nelle nebbie del tempo e nella madre terra, ma fortunatamente solo il ramo dell’Homo Sapiens Sapiens continua ad evolversi ed anche in maniera esponenziale; infatti, secondo stime riportate [35], la selezione positiva negli ultimi 5.000 anni avrebbe operato ad un tasso cento volte superiore a quello di ogni altro periodo precedente della storia dell’umanità. La selezione ha operato attivamente su 1.800 geni, cioè sul 7% del nostro patrimonio genetico! 

 Anche le ricerche, i ritrovamenti e le indagini paleogenetiche in questi ultimi mesi hanno ulteriormente incrementato la conoscenza della nostra stirpe. 

 Il 4 aprile di quest’anno in una cava calcare del Sudafrica, nella caverna di Malacapa nella zona di Sterkfontein, è stato trovato un bambino di ominide perfettamente preservato, con caratteristiche somatiche intermedie di un australopiteco, presente in Africa 3,9 milioni d’anni fa e di un homo habilis, nostro progenitore di 2,5 milioni di anni fa; il primo considerato ancora una scimmia ed il secondo nostro diretto progenitore. L’autore del ritrovamento è stato il sudafricano Lee Berger che da anni conduce ricerche in quella zona soprannominata “culla dell’umanità”. La scoperta di un intero scheletro, e non di un solo dente o di un osso di una braccio, come purtroppo avviene, è stata definita entusiasmante e meravigliosa dall’antropologo Phillip Tobia, che identificò nel 1964 l’Homo habilis, cioè il primo ominide della specie umana. Il reperto della caverna di Malacapa potrebbe rappresentare il ricercato “anello mancante”. 

 Un altro ritrovamento recente, che interessa alla lontana la nostra specie, cioè all’origine della divisione con le scimmie antropomorfe, è stato rinvenuto in Spagna nel 2004, ad Anoia nei pressi di Barcellona, ove è stato ritrovato un Ominide del Miocene medio di 12 milioni di anni fa, soprannominato Anoiapithecus [36], e che pare sia un precursore evolutivo degli ominidi, degli Oranghi, degli Scimpanzé, dei Bonobo, dei Gorilla ed anche degli uomini. La caratteristica saliente di Liuc è la riduzione del prognatismo, che avvicina la sua morfologia facciale a quella moderna. Nella stessa zona un milione di anni prima era vissuto il Pierolapithecus Catalonicus [37], uno dei rappresentanti meglio conservati delle Driopitecine, gruppo di scimmie africane ed euroasiatiche antenate delle antropomorfe attuali. 

 La selezione darwiniana in senso generale è stata considerata come filtro selettivo operato primariamente dall’ambiente, trovando la sua ragion d’essere nelle capacità positive delle specie per affrontare e superare le difficoltà. In questa visione si evidenzia la risposta positiva delle specie e la loro capacità di progressione. 

 E’indiscutibile comunque che l’evoluzione sia il risultato anche di ulteriori componenti dinamiche che associandosi a quella prospettata da Darwin, la influenzano, contrastandola e determinandola. 

 Per poter comprendere quali sono questi fattori, possiamo iniziare partendo dall’elemento finale, studiando le prove della sua storia evolutiva. E’ ovvio che il prodotto è stato determinato da una miriade di numerosissime dinamiche fisiche e biologiche, assoggettate alle rispettive griglie strutturali manifestate sui diversi piani delle fasi corrispondenti. Su ciascun piano questi elementi sono stati a loro volta subordinati dalle leggi generali, che si embricano con i fattori contingenti, che risultano dalla dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali, dalla non linearità e dalla presenza di meccanismi di feed-back convergenti con le più disparate dinamiche esogene; questa suddivisione continua di un unico elemento dinamico frutto di tante cause agenti sui diversi piani, non deve spaventarci per la sua manifesta complessità, perché su ciascun piano le regole sono le stesse e già massimamente individuate. 

 Questa rete dinamica complessa, che chiamiamo evoluzione é il risultato sia dell’autorganizzazione che dell’evoluzione darviniana, a loro volta condizionate nel proprio ambito da numerosi fattori e da influenze esterne, che inquadrate sui piani delle fasi possono condizionare un piano aggiuntivo per la sua esatta comprensione. Pertanto gli studi matematici sugli automi cellulari e sulle reti booleane, che sono esse stesse capaci di generare nuovi elementi estranei alle influenze esterne, devono essere tenuti in considerazione. Ovviamente il tutto, sempre, viene condizionato dalla rete fisico-matematica di base su cui si sovrappone, integrandosi, la contingenza, intesa come espressione della stessa struttura matematica, ma parcellizzata ed inserita nel tempo su ciascun piano particolare. 

 La struttura della realtà va vista pertanto come una griglia matematica su cui si appone integrandosi una seconda rete evolutiva in cui il fattore tempo condiziona continue divergenze, a loro volta condizionate da fattori matematici talmente minimali da non poter essere con esattezza inquadrati, se non in modo complessivo. In considerazione di questa complessa panoramica, propendo che la selezione naturale e l’auto-organizzazione rappresentino aspetti di un unico processo evolutivo come del resto fu prospettato da Depew e Weber in “Darwinism evolving” [38]

 In questi ultimi anni lo studio della complessità ha individuato e riunito in un unico contesto concettuale tanti elementi evidenziati in passato che attualmente possono venir riuniti e catalogati come facenti parte dei sistemi auto-organizzativi. Ed è appunto quest’ultima considerazione che si affianca a quegli elementi positivi, che le specie presentano nel divenire selettivo. Questo concetto è stato esplicitato nell’Auto – organizzazione dei sistemi complessi [39] e più compiutamente nel recente volume del Sarà [40]

 Il 26 giugno del 2000 il presidente Clinton alla casa Bianca tra Collin capo del consorzio pubblico “Progetto Genoma” e Venter direttore dell’azienda privata “Celera-Genomix” annunciò solennemente: ”Oggi stiamo imparando il linguaggio con cui Dio ha creato la vita!”. 

 Il progetto Genoma è stato un trionfo del riduzionismo, riducendo i complessi sistemi viventi alle loro componenti elementari (– è la verità -), ma contemporaneamente ha dato dimostrazione ed evidenza che il comportamento e le funzioni degli organismi viventi è raramente riconducibile alle loro componenti molecolari: non esistono geni buoni e geni cattivi, come la corrente pubblicistica ci martella giornalmente: Facciamo un semplice esempio: nel nostro cortile abbiamo una Ferrari smontata: migliaia e migliaia di pezzi, ingranaggi, viti e componenti. La Ferrari é li, siamo orgogliosi, ma non sappiamo come funziona, come è assemblata, perché anche la Ferrari, pur essendo un reale meccanismo, è in realtà solo un sistema complicato. 

 Dobbiamo studiare la correlazioni tra le parti. Dobbiamo chiarire le connessioni della rete che rende funzionante la nostra “complessa” Ferrari. Conosciamo le viti ed i componenti del genoma, ma non sappiamo ancora come funzioni. 

 All’inizio di quell’anno i biologi molecolari supponevano che il numero dei geni del genoma umano fosse di 150.000, anche in considerazione che il Caernorhabditis elegans, nematode che prospera tra i vegetali marci di tutto il mondo e che possiamo definere “il vermetto dei laboratori” ne possiede circa 19.000 pur essendo costituito da 979 cellule, ed il granoturco da 40.000 geni! Alla pubblicazione dei risultati la maggioranza degli studiosi rimase perplessa: erano stati inizialmente evidenziati 30-35.000 geni ed alla fine 25.000! 

 Questo ridotto numero di geni rispetto alla complessità della nostra specie è la dimostrazione di come il sistema genetico nell’uomo sia sofisticato ed efficiente e dimostra che uno stesso gene possa essere responsabile della sintesi di più proteine. Questa possibilità è il risultato di un meccanismo conosciuto da anni, ma solo ora chiarito per la sua finalità e funzionalità complessiva: è il meccanismo dello splicing, individuato da Philli A.Scharp del MIT e da Richard Roberts del New England Biolabs [41], che consiste nel “rifinire” l’RNA contenente i geni per la sintesi proteica, scartando le parti del genoma non codificanti e definite impropriamente “RNA spazzatura”. Col senno di poi é facile affermare che raramente, anzi quasi mai, la natura ed i suoi meccanismi conservano elementi strutturali inutili! 

 Se poi vogliamo essere precisi, e la precisione ci è stata fornita da Lucio Luzzato [42], il termine “DNA spazzatura” è la traduzione inesatta da “junk DNA, che letteralmente significa DNA che si accumula, e che non é detto si debba scartare! 

 Sin dagli anni ottanta erano stati individuati più di mille “pseudo geni”, copie di geni con qualche minimo difetto, interpretati come curiosità o scarti durante l’evoluzione. Negli ultimi dieci anni é stata individuata inoltre una classe di RNA con dimensioni ridotte e che giustamente sono stati chiamati “Micro RNA”; questi, riconoscendo con precisione la sequenza degli RNA, hanno evidenziato una potente azione regolatrice sugli RNA messaggeri. Per essere didattici: il microRNA riconosce sia l’RNA del gene che dello pseudo gene. Il micro RNA che si lega al messaggero del gene ne inibisce la funzione, ma quando si lega all’RNA messaggero dello pseudo gene l’inibizione viene rimossa e la funzione genica ripristinata. Questo preciso sistema rappresenta un mirabile meccanismo regolativo [43], che permetterà di poter interferire sulla dinamica della funzione genica. E’ un battito d’ali che sicuramente avrà risvolti epocali! 

 Ora comunque si è arrivati a completare l’analisi minuziosa di tutte le molecole di RNA prodotte in una cellula [44], che risultano essere 180.000, numero davvero inaspettato rispetto ai 22.000 geni. Perciò del DNA iniziale solo il 2 % viene tradotto in proteine, mentre la parte residua, non codificante e ritenuta spazzatura, benché non serva direttamente alla sintesi proteica, serve a coordinare il funzionamento dei geni, a dirigerne l’attività: la loro accensione e/o il loro spegnimento e chissà quant’altro. 

 Esisteva un dogma, considerato un pilastro della biologia molecolare: “Un gene – un RNA – una proteina”. 

 D’ora in poi si dovrà considerare: “Un gene – molti RNA – a volte anche le proteine”. La verità del mondo si auto-organizza come la criticità del mucchietto di riso! 






[1] Carl Nilsson Linnaeus divenuto Carl von Linné in seguito all'acquisizione di un titolo nobiliare e noto ai più semplicemente come Linneo (17071778) è stato un biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi.

[2] Desmond Morris in The Human Animal.1994

[3] La mappa genomica è stata pubblicata su Nature, settembre 2005

[4] Questa stima è viziata da una considerazione riduttiva che valuta le differenze in base alla  “centralità del DNA”, considerta come factotum della trasmissione genetica.

[5]Gilad G., Oslhack A., Smith G.., Speed T.P., White K.P. Expression profiling in primates reveals a rapid evolution of   human transcription factors. Nature 440, 242-245, 2006

[6] King, M.C. and A.C. Wilson (1975). Evolution at two levels in Humans and Chimpanzees. Science 188: 107-116. 

[7] Femmina di Ardipithecus ramidus viveva in Etiopia 4,4 milioni di anni fa: psava 50 Kg, era alta 1 metro e 20 cm on un volume cranico di 300 ml. Discendeva da un antenato comune che possedeva caratteri degli scimpanzé e quelli del nostro ramo dei Sapiens. Possedeva un’anatomia non ancora specializzata e non ancora evoluta verso le caratteristiche dell’Austrolpitecus. I reperti furono trovati 17 anni fa. Lo studio completo eseguito da 47 scienziati, sotto la guida di Tim White è stato pubblicato su Science 326, 1-188, 2009

[8] Resti di una donna di circa 25 anni ritrovata ad Afar in Etiopia nel 1974 appartenente alla specie di Austrolopitecus afarensis, di 1metro d’altezza e 28 Kg di peso, cranio scimmiesco. E’ il più antico ominide rinvenuto.

[9] A sud di Oduvai in Tanzania, vulcano attualmente spento, che eruttò cenere di carbonatite, che calpestata ci ha restituito le orme di ominidi di 3 milioni e 500 anni fa.

[10] La scoperta risale al 1978 da parte di una equipe di paleontologi guidata da Mary Leakey.

[11] Arol V. Ward “Complete Four Metatarsal and Arches in the Foot of Australopitecus Afarensis” Science 11 February 2011: Vol. 331 no. 6018 pp. 750-753

[12] Arsenio Leone “Alimentazione, clima ed evoluzione dell’uomo.” Mattioli Ed. 2007

[13] Brian G. Richmond e coll. “Orrorin tugenensis Femoral Morphology and the Evolution of Hominin        Bipedalism.” Science 319, 1662-1665, 2008

[14] Pubblicazione online Amer.J. Human Genetics 17 agosto 2012

[15] Pubblicazione on line Nature 22 ottobre 2009

    [16] DU1220 Domains, Cognitive Disease and Human Brain Evolution. Pubblicazione online  Cold  Spring   Harb. Symp. Quat.Biol. 2009; 74: 375-382

[17] Guerrier S. Polleux F. e Coll. Cell 138 (5), 990-1004, 2009

[18] Eichler E. e Coll. Cell  149 (4), 912-922, 2012

[19] Charrier C, Polleux F. Cell 149 (4), 923-935, 2012

[20] Jill D. Pruetz and Paco Bertolani. Savanna Chimpanzees, Pan Troglodytes versus, Hunt with Tools. Current Biology 17, 412-417,, 2007

[21] “Basic math in monkeys and college students” PloS Biol. 5(12): e 328

[22] Sana Inove and Tetsuro Matsuzawa. Wrking memory of numerals in chimpanzees. Current Biology Vol.17, No 23, R1004-R1005, 2007

[23] Solecki Ralph, “IV Shanidar, una sepoltura di un Neanderthal in Iraq del Nord” Science, 190, 880-881, 1975

[24] David Lordkipanidze e Coll. “Anthropology:  The earliest toothless hominin skull”. Nature  434, 717-718,  2005

[25] Carel van Schaik. Scientific American Aprile, 2006

[26] Andrew Whiten and Victoria Corner della St. Andrew University  (U.K.) e Frans de Wall della Emory University U.S.A. Settembre 2005

[27] Evento ideato e curato scientificamente da Claudia Lavro

[28] In  Spagna è stato rinvenuto il Pierolapitecus Catalaonicus, il rappresentante meglio conservato delle Driopitecine, un gruppo di scimmie africane ed eurasiatiche, antenate delle grandi scimmie antropomorfe attuali vissute 12,5 – 13 milioni di anni fa nel Miocene medio.

[29] Rudolf Ludwig Karl Virchow (1821-1902) è stato uno scienziato, medico, antropologo tedesco, considerato il medico più importante del XIX secolo.

[30] Prende nome dal sito di Le Moustier, un riparo in roccia nella regione francese della Dordogna. Gli attrezzi musteriani venivano prodotti dai Neandertaliani e risalgono a 300.000-30.000 anni fa.
 
[31] Svante Paabo e Coll. “A Draft Sequence of the Nenderthal Genome.” Science 328, 5979, 710-722, 2010

[32] Rex Dalton  Nature 464,  472-473, 2010
 
[33] Se si riuscirà a sequenziare l’intero genoma rappresenterebbe il più antico genoma sequenziato, che ecilisserebbe quello di 4.000 anni fa di un soggetto eschimese. (Rasmussen J. E coll. Nature 463, 757-762, 2010).

[34] Derevianko A. E Coll. Archeologia, Ethnol. Concezione Antropologica. Eurasia 34, 13-25, 2008

[35] John Hawks e Coll. “Recent acceleration of human adaptative evolution”. PNAS vol. 104, 20.753-20.758, 2007

[36] Moya-Sola S. e Coll. “A unique Middle Miocene European hominoid and the origins of great ape and human clade”.   PNAS 106, 9601-9606, 2009

[37] Salvador Moya-Sola e Coll. Pierolapithecus catalaunicus. Science 306, 1339 – 1344, 2004

[38] David  J. Depew e Bruce H. Weber “Darwinism Evolving: System Dynamics and the Genealogy of Natural Selection”. MIT Press (MA) 1996

[39] P. Izzo, M. L. Scaramuzzi  Darwin Day 2004 – 2005  pg. 167-181 Servizio Editoriale Universitario. Bari. 2005

[40] Michele Sarà "L’evoluzione costruttiva". I fattori di interazione, cooperazione e organizzazione. UTET Torino 2005

[41] Entrambi insigniti del Premio Nobel per la Medicina (Fisiologia) nel 1993.

[42] Genetista Ematologo di chiara fama, direttore dell’Istituto Oncologico Toscano.  
Su  Il Sole 24 ore. 3 luglio 2010.

[43] Pier Paolo Pandolfi , Laura Poliseno e coll. Nature 24 giugno 2010.

[44] Ricerca coordinata da Piero Carnici con una nuova tecnica per lo studio dell’RNA: Tokio, settembre 2005

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