domenica 28 ottobre 2012

27 La complessità dell'apprendimento e l'evoluzione del linguaggio.



27  La complessità dell’apprendimento e    l’evoluzione del linguaggio.



                        Tutto ciò che fa di noi esseri umani: 

                                      linguaggio, conoscenza, cultura 

                                      è il risultato della capacità della mente umana 
                                      di imparare, apprendere
                                      e memorizzare informazioni.

Lo studio dei sistemi complessi ha come obiettivo primario l’individuazione delle regole e delle leggi alla base dei fenomeni, che dalla loro complessità evidenziano l’emersione spontanea di un nuovo ordine, frutto delle infinite interazioni dei componenti del sistema; praticamente ogni singola parte va alla ricerca di un nuovo equilibrio, acquisendo nuove proprietà insite e caratteristiche della nuova struttura. Consideriamo ad esempio il linguaggio: da un insieme di lettere formiamo le parole e da un insieme di parole le frasi, ma il concetto che con esse esprimiamo è molto più della somma delle lettere o della grammatica impiegate. 

I sistemi dissipativi di Prigogine [1] sono gli unici capaci di svilupparsi presentando vantaggi indiscutibili: l’adattabilità, l’evolutività e l’autoregolazione, che é sempre foriera di un nuovo ordine, in quanto genera infinite possibilità dinamiche non lineari sempre sensibili alle condizioni iniziali. Anche se l’entità emergente non é ottimale, né controllabile e nemmeno prevedibile.

Queste verità sono valide anche per l’apprendimento, perché numerosi sono gli elementi neurofisiologici, che rappresentano la rete pluridimensionale su cui si basa e pertanto devono venir considerate, con tutti gli strumenti e le conoscenze che sino ad oggi siamo in grado di utilizzare.

L’elemento fondante dell’apprendimento è il processo mentale, che dalla percezione di entità, siano esse sensoriali o cognizioni già acquisite, conduce alla formulazione di un nuovo concetto, che deriva dal confronto di somiglianze e regolarità aggreganti le precedenti percezioni alle nuove, facendo così emergere una nuova rappresentazione mentale, frutto di un processo adattativo o, secondo Gell Mann [2], evolutivo. 

I sistemi evolutivi o, per riutilizzare il termine coniato da Gell-Mann: i sistemi complessi adattativi come l’apprendimento del linguaggio da parte dei bambini o lo sviluppo della resistenza agli antibiotici da parte delle colonie batteriche e la stessa espansione dell’attività scientifica, presentano, come essenza delle loro dinamiche, la retroazione, la capacità di adattarsi alla realtà, di autorganizzarsi alla stregua del pensiero umano, del sistema immunitario, del sistema coagulativo, dei mercati economici e praticamente di tutti i sistemi fisici e biologici, che non reagiscono passivamente, ma rispondono in modo creativo alla realtà in cui sono immersi. La struttura dell’informazione, che potrebbe essere chiamata l’albero della conoscenza, può essere rappresentata da una rete radicata nella realtà che si sviluppa accrescendosi come un tronco capace di ramificarsi in diverse direzioni, distribuendo informazione anche con le foglie secche.

L’essenza, il tramite dell’informazione è pertanto costituita da una rete di unità che variano da caso a caso: gesti, parole, significati o, nel caso dell’informatica dai bit, cioè dal semplice 0 o 1.

La struttura dell’informazione, che ho definito albero della conoscenza, può essere paragonata inizialmente alla struttura dell’ammasso a diffusione limitata o alla struttura del famoso mucchietto di riso, classico esempio della criticità auto-organizzata e che si forma facendo cadere il riso, chicco dopo chicco, che si auto-organizza in una costruzione metastabile, che con i pesi dei successivi chicchi evidenzia piccole frane ai lati del mucchietto, ma che alla fine determinano il crollo complessivo del cono. La ulteriore caduta di nuovi chicchi ricostruisce autonomamente un ulteriore struttura, che nel tempo è foriera delle stesse dinamiche. Questo semplice paragone può chiarire sia la nascita di una lingua, sia la sua evoluzione, che la sua divaricazione con la formazione di famiglie linguistiche. Anche in questo caso fa capolino, come in tutti i contesti, la struttura matematica di base: che si evidenzia sia nell’ammasso a diffusione limitata che nella criticità autorganizzata, entrambe che evidenziano nella loro evoluzione, essendo inserite nel tempo, la loro autorganizzazione formalizzandosi con la legge di potenza, caratteristica della transizione di fase. 

L’informazione rappresenta una connessione, stabilisce un rapporto e l’evento che costituisce il dato, è paragonabile ad un nodo di una rete strutturale che investe tutta la realtà conoscibile. La struttura dell’informazione vista nella sua globalità, può in definitiva comprendere la realtà stessa, l’universo; è questa una visione, o meglio un’interpretazione simile a quella di Steth Lloyd autore de “Il Programma dell’Universo [3]”che ha paragonato ogni singola particella: atomo, molecola ad un bit, capace di evolvere e determinare un’informazione arrivando a considerare l’Universo stesso regolato dalle leggi della dinamica quantistica come un computer quantistico nella sua continua e gigantesca evoluzione. Dalle sue origini l’Universo ha iniziato a calcolare; prima producendo strutture semplici poi sempre più complesse: dagli atomi, alle molecole, alle galassie, alle stelle, pianeti sino alla vita ed alla coscienza. Il tutto spontaneamente seguendo le leggi che sino ad oggi siamo stati in grado di svelare come il continuo calcolo dell’Universo che è riuscito ad arrivare ai sistemi complessi da leggi fisiche fondamentalmente semplici. Nel prologo del libro a pagina XII Gel Mann chiede all’autore: “Ma davvero i bit sono tutti eguali? La risposta di Llyod è affermativa: “ la quantità dell’informazione che i bit registrano è sempre la stessa, ma la quantità dell’importanza dell’informazione varia da bit a bit, e dal contesto”. E Gell Mann chiede: “C’è un modo matematico preciso per quantificare l’importanza dell’informazione contenuta in un bit?” E Seath Llyod ha avuto una risposta non del tutto esaustiva. Io avrei aggiunto:”Sarebbe opportuno paragonare ed accomunare l’importanza dell’informazione alla “Fitness” della Bianconi (=”η” della formula che collega la fitness delle reti a quella del condensato di Bose Einstein. Vedi pag. 179). Ma io non c’ero e comunque Seth Llyod si è ampiamente salvato scrivendo quell’originale e profondo libro sull’aspetto inedito dell’Universo, inteso non solo come oggetto, ma contemporaneamente come soggetto, come se nella materia esistesse il germe o venisse individuato lo spirito stesso del mondo. Considerando che ogni particella: atomo, quark rappresenta un bit, equivalente ad informazione e che ogni informazione ha necessità di una tecnologia che la espliciti, esprimendo l’informazione nel suo libro l’Autore si chiede ad un certo punto quale sia la tecnologia che registra l'informazione dell’Universo? Quale? Se non l’Universo stesso? La risposta mi sembra ovvia. 

       Universo ---------> Informazione; Informazione --------- > Universo

Durante l’evoluzione della nostra specie con l’acquisizione del bipedismo e del portamento eretto, gli arti anteriori furono liberati dalla funzione di appoggio e di arrampicamento e le mani risultarono così i primi utensili dell’uomo per essere adoperate per altri scopi: raccogliere, trasportare il cibo, portare i cuccioli, cacciare, accendere il fuoco, costruire capanne e fabbricare strumenti. L’uso delle mani incrementò sinergicamente lo sviluppo delle aree motorie cerebrali corrispondenti per poter essere in grado di eseguire movimenti sempre più precisi e finalizzati; si sviluppò la gestualità, si iniziò ad usare le dita per i primi calcoli, poi si utilizzarono i sassi; il termine calcolo infatti deriva da calculus, cioè piccolo sasso, si abbellirono le conchiglie forandole; le palline con il passare del tempo e dei secoli furono utilizzate sull’abaco, strumento che riscosse fortuna perché coincise con l’utilizzo dell’astrazione matematica e con l’introduzione e lo sfruttamento dello zero; che non è un numero, ma è l’espressione di un concetto astratto. Il termine zero deriva da Zephirum, che significa vento, da Sifr in arabo, e da Shunia in Sanscrito, termini questi che indicano “cosa vuota” e che derivano da un termine onomatopeico, che comunica qualcosa di immateriale; in seguito l’abaco cadde in disuso con l’introduzione dello zero, permettendo di calcolare facilmente numeri altrimenti non raffigurabili.

Ritornando all’evoluzione della nostra specie, a piccoli passi, ma forse in questo caso è meglio dire a piccoli fonemi, si iniziò ad utilizzare il linguaggio, favorito tecnologicamente dalle corde vocali e funzionalmente dalle aree motorie del cervello; e anche da questa sinergia si esplicita, come per altre attività, l’auto-organizzazione del sistema nervoso centrale.

Anche le lingue hanno subito un’evoluzione e registrano continuamente cambiamenti ambientali dovuti alla contingenza. Inizialmente le parole traggono origine da radici comuni, che fondamentalmente sono espressione di suoni di per sé significativi, che riproducono suoni, rumori, richiami di animali e li adattano secondo regole fonologiche, subendo l’assonanza onomatopeica: il flusso dell’acqua, il fluire del fiume e di un ruscello si ritrova nei termini apparentati a vari idiomi di culture simili ed anche più significativamente a lingue di popoli assolutamente non imparentati che dal punto di vista evolutivo non hanno nulla in comune se non con i primi ancestrali fonemi. Il significato e la corrispondenza col suono originale è essenziale, anche se ogni lingua lessicalizza diversamente le onomatopee per lo stesso suono: in italiano il canto del gallo è chicchirichì, in francese cocoricò, in tedesco Kikerikì, in inglese cock-adoo-dle-doo; il che indica che l’adattamento fonologico è convenzionale e verosimilmente contingente. Fiume: flfff: flusso, fluire. Abbaiare: bau-bau. Zitto: zittire; in rumeno: citu, spagnolo: chito, in francese: chaucoter (bisbigliare). Sibilo: sibilus, sifilus. Zufolo: fischio da sib-sif voce onomatopeica, soffio e suono, che esce dal vuoto. Russare = in ladino ruflar, in aramaico ruflar, in tedesco ruzzon e russen sonnecchiare, rasslen: far rumore, ruchon: ruggire, in spagnolo: ronchare, in greco rogcos, rumoreggiare dormendo, ronfare: ron - fiato. Gracchiare: Gra-gra della Cornacchia e del Corvo.

Nel tempo le parole maggiormente utilizzate restano costanti e si radicano nel linguaggio a dimostrazione che la loro stabilità è in relazione al loro utilizzo. Questo dato è emerso da uno studio di Mark Pagel [4], professore di biologia evolutiva dell'università di Reading, che ha confrontato un database di 200 vocaboli fondamentali espressi da 87 idiomi diversi applicando un modello di analisi statistica a quattro lingue del ceppo indoeuropeo (inglese, spagnolo, russo e greco), ed ha concluso che esistono alcune categorie di parole di uso comune, come i numeri, ad esempio, la cui alta frequenza di utilizzo ha influito sul loro insignificante tasso di sostituzione nel corso di migliaia di anni. Nel mondo si parlano circa seimila lingue, ma più della metà degli abitanti della nostra terra parlano le otto lingue più diffuse: il Cinese, l’Hindi, l’Arabo, il Portoghese, l’Inglese, lo Spagnolo, il Bengalese ed il Russo. Ed anche le lingue possono venir paragonate ai rami di un albero; ad esempio la lingua primordiale Indo-Europea ha dato origine al gruppo Slavo–Germanico e Ario-Greco Italo Cetico; lo Slavo Germanico ha dato origine al Tedesco, al Baltico e allo Slavo, mentre l’Ario-Greco-Italo-Celtico al Celtico, all’Italiano, all’Albanese ed al Greco, all’Iraniano e all’Indiano.

Il linguaggio costituisce non solo una rete definibile di tipo orizzontale per dialogare con gli altri e descrivere la realtà, ma, inserendola nel flusso del tempo, un elemento per comprendere l’evoluzione delle popolazioni e delle società diversificate nei vari livelli: gruppi, tribù, stati ed imperi. In effetti il linguaggio è l’espressione di come le popolazioni si sono aggregate, evolute, diversificate, rappresentando esso stesso una rete evolutiva simile a quella delle specie biologiche. Questa visione è stata utilizzata da Tom Currie dell’University College di Londra che ha utilizzato i diversi linguaggi come fossero geni: usando la lingua, un idioma come fosse un elemento quantitativo simile ai segmenti del DNA dei genetisti [5], [6]. Con questa metodologia ha indagato l’evoluzione culturale e sociale di una vasta popolazione comprendente quella del Madagascar, delle Hawai, del Sud-Est asiatico e dell’Oceania, che utilizzano quattrocento idiomi omogenei. Questo studio ha chiarito che la complessità evolutiva di una società procede lentamente a piccoli passi, aumentando o, a volte diminuendo e raffigurando nel tempo quel che nel ‘settecento il filosofo napoletano Vico condensava nel famoso detto “dei corsi e ricorsi storici”. Questo studio dimostra oltretutto che il linguaggio deve essere inteso come una rete dinamica costituito da un impianto strutturale matematico su cui si inserisce contestualmente la contingenza; elementi entrambi che si accomunano universalmente nella realtà. 

In considerazione che anche il linguaggio ha subito un’evoluzione nei millenni ed è pertanto inserito nella freccia del tempo, trovo condivisibile la teoria di Atkinson [7] che considera l’evoluzione linguistica inquadrandola in un percorso matematico-statistico. Le 504 lingue principali, delle seimila attualmente parlate sul pianeta, deriverebbero tutte da un ancestrale utilizzo di fonemi, interpretabili come iniziali mattoni dell’informazione, che si sarebbero autorganizzati in una lingua primigenia considerabile come un contenitore di tutti i fonemi presenti nelle lingue successive. Questo residuo dell’aggregato primario è stato individuato nel Khoisan, l’idioma parlato dai Boscimani, che rappresenterebbe un prezioso fossile linguistico.

L’antropologo considerando l’utilizzo dei fonemi come il primo ancestrale linguaggio dovuto ad un primitivo processo autorganizzativo, considera la progressione e l’evoluzione linguistica calcolando la diminuzione dei singoli fonemi che, come i geni, sarebbero andati perduti nel vento del tempo, non essendo più utilizzati. Una diversità fonemica decrescente in relazione alla progressiva distanza dall’Africa ed analoga a quella dimostrata dai genetisti a proposito della variabilità riscontrata dal DNA; alcuni parlano dell’effetto del fondatore: la separazione da un gruppo interconnesso equivale alla perdita della complessità iniziale del numero dei fonemi e ad un successivo contemporaneo sviluppo dell’incremento lessicale, di una particolare evidenza della criticità autorganizzata inquadrabile alle frane laterali del famoso mucchietto di sabbia o di riso dell’esperimento di Bak, Chao Tang e Kurt Weisenfel (pag. 238). Una riduzione dell’informazione primigenia seguita e sostituita contemporaneamente in seguito per necessità dalla formazione lessicale dell’idioma nascente. Lo studio di Atkinson si inquadra e si avvicina per analogia sia con le prove fossili dell’emigrazione umana dall’Africa, sia con gli studi genetici dell’analisi del DNA che similmente ha evidenziato una sua diversità decrescente correlata con la lontananza dal continente africano. Da questo rivoluzionario studio di Atkinson deriverebbero e troverebbero nel contempo la loro dimostrazione importanti acquisizioni: la prima, che l’inizio dell’evoluzione del linguaggio è avvenuto ben 100.000 anni fa e non 10.000 come sino ad oggi si considerava, ed è avvenuto in Africa prima della progressiva espansione dell’uomo sul pianeta; considero questa supposizione logica e valida: la comunicazione tra gli individui è certamente un fattore essenziale e come tale favorente la capacità migratoria.

Questo studio basato su dati matematico-statistici, ma elaborato con una visione ampia comprendente la storia delle migrazioni umane e le parallele modifiche genetiche si è basato su dati obiettivi certi: il numero di fonemi utilizzati nei 504 linguaggi del mondo che varia da più di 100 negli Ixu del Sud Africa e decresce nelle lingue anglo germaniche a meno di 50, nel Mandarino a poco più di trenta, nel Garawa in australia ad una ventina, nell’Havaiano a poco più di dieci e nel Piraha in Sud America a undici. Una fotografia linguistica parallela alla distanza migratoria dall’Africa, culla della nostra vita e della capacità di relazionarci e di progredire.

Questa è stata la descrizione dell’evoluzione del linguaggio; ora dobbiamo considerare il secondo livello della progressione dell’informazione: quello di cui noi siamo i principali attori, il livello conoscitivo. Tra queste due fasi si evidenzia una transizione, come avviene durante l’emersione di ogni nuovo sistema adattativo. 

Ho preso come paragone, per descrivere la progressione dell’informazione, la figura di un albero, ma se di un albero trattiamo è intuitivo, e l’immagine risulta ancor più realistica, considerare le sue radici, che traggono nutrimento dall’ambiente, essenziale per la sua crescita. Con questa interpretazione possiamo riconsiderare a livello radicale la fase dell’autorganizzazione convergente [8] ed a livello superiore l’evoluzione in senso darwiniano divergente come espressione della diffusione e della radicalizzazione dell’informazione. Ma l’iter conoscitivo comprendente questa dinamica bifasica (convergente-divergente) quando si presenta al centro della nostra coscienza individuale deve ancora essere suddivisa nuovamente ed essere considerata bifasica: i segnali sensitivi vengono analizzati convergenti sulle strutture sensitive, indi trasformati ed inviati in una seconda rete, quella cerebrale, ove l’iter progressivo si è così ulteriormente allungato: il percorso era inizialmente convergente, poi divergente, ora nuovamente convergente e , complessivamente, può essere paragonato fisicamente ad un’onda che trasporta le realtà esterne alla nostra realtà interna, che possiamo sin d’ora definire lo specchio del mondo; e di questo secondo percorso spenderò solo poche parole. Sperando che in futuro gli esperti psico-cognitivi, seguendo questa visione dello schema del percorso evolutivo dell’informazione, riescano a dimostrare materialmente la capacità e la reale conoscenza del mondo esterno in quello interno, dando risposta al quesito che Einstein si poneva: “Come è possibile che la realtà dell’Universo sia comprensibile alla nostra mente o come la Mente umana sia in grado di precorrere quella esterna: il mondo e l’Universo.” Quando questo accadrà potremo dire e confermare di essere lo specchio cosciente della realtà. Non solo a casa nell’Universo [9], ma parte integrante dell’Universo.

“Quando sono stanco non dico ho il corpo stanco [10]”, come ha scritto Umberto Galimberti [11] nella prefazione de: ”Il Medico nell’età della tecnica” di Jaspers; quando sono stanco tutto il mio essere è stanco: perché la mente è un tutt’uno col nostro corpo. E le nostre idee ed i nostri pensieri, che dalla mente derivano, altro non sono che proprietà emergenti del sistema complesso interattivo neuronale, sistema complesso, che è un esempio di struttura dissipativa [12].

Quale è il substrato organico, quali le reti che rappresentano l’humus che sono alla base dell’apprendimento?

E’ il nostro cervello, quella massa gelatinosa di 1400 g contenuta nella teca cranica, costituito da una intricata rete di assoni e nevriti che connettono i neuroni: nodi ed essenziali costituenti funzionali di questa mirabile rete. Il neurone comunque é una cellula capace di generare solamente tensioni elettriche, e, rinchiuso nel suo limitato mondo con limitate capacità, può solo connettersi con altre sue simili tramite ioni di potassio, di sodio, di calcio e di cloro; il neurone può essere paragonato ad una formica, anch’essa capace di poche attività su base locale [13], ma in continua connessione con altre, a formare il formicaio: la più organizzata struttura sociale esistente; lo stesso avviene per il neurone in connessione con altri a costituire quella straordinaria rete capace dell’emersione delle attività più elevate del pensiero umano. Anche il pensiero e le funzioni della mente emergono da strutture non pensanti; Daniel Dennet [14] - professore di filosofia di Tufts - considera il pensiero una proprietà emergente: per Dennet non esiste un centro che controlla il comportamento, una sede in cui risiede “l’anima" di un essere: L'Io di un vivisistema è una proprietà emergente, è un fantasma che può essere solo rappresentato da un vortice di una moltitudine di funzioni, ciascuna con caratteristiche diverse come le singole gocce d'acqua di un mulinello emergente. I sistemi biologici si sono evoluti in modo da poter trarre vantaggio dalle informazioni incamerate; la memoria permette l’utilizzo del passato per adattarsi ad un futuro sconosciuto e mutevole.

Ma torniamo al cervello considerandolo come l’hardware funzionalmente capace di apprendere, ricordare e formare la cultura, intesa come software.

Già Cajal [15] alla fine dell’ottocento aveva ipotizzato che il mirabile processo che ci permette di recepire il mondo, fosse costituito dalla rete neuronale e che l’apprendimento fosse dovuto alla variazione della forza sinaptica [16], cioè al rinforzo della connessione tra i neuroni, nodi della rete, con conseguente maggior connettività e comunicabilità, suggerendo che l’esercizio mentale facilita un maggior sviluppo dell’apparato protoplasmatico e delle collaterali nervose nella parte del cervello utilizzata [17]. Dopo cinquant’anni, un allievo di Pavlov [18], il Kornorski suppose che uno stimolo sensoriale può indurre una variazione dell’eccitabilità neuronale, cui segue un periodo refrattario o, in caso di una stimolazione incrementata, o derivante da più neuroni della rete, una variazione, che chiamò variazione plastica, cioè una trasformazione funzionale permanente [19]. Si deve arrivare poi al 1970, quando, con un approccio riduzionistico si è individuato in una lumachina di mare, l’Aplysia, l’animaletto di laboratorio su cui svolgere contemporaneamente esperimenti combinati sia di tipo comportamentale [20] che cellulare [21]. L’Alypsia è un mollusco marino che vive nelle scogliere della California e possiede un sistema nervoso molto semplice costituito da 200.000 neuroni di grandi dimensioni, facilmente studiabili: rappresenta un modello elementare più semplice del cervello umano che di neuroni ne possiede più di dieci miliardi. 

Il merito di Kandel, insignito nel 2000 del premio Nobel per la medicina, è stato l’aver proposto un modello sperimentale animale per lo studio delle basi biologiche della memoria e dell’apprendimento partendo da un presupposto evoluzionistico per cui i meccanismi molecolari e cellulari della memoria si sono conservati in tutti gli animali: pertanto è stato lo scopritore della “grammatica” della memoria e dell’apprendimento, provando che uno stimolo ripetuto induce un rafforzamento della sinapsi [22] con attivazione genica da parte del neurone e con conseguente neosintesi di nuove proteine [23]. Per l’attivazione della memoria a lungo termine è necessaria la contemporanea attivazione sia dei geni della proteina CRB 1 che di quelli della proteina CRB 2, necessari per la disattivazione dei geni che accrescono la memoria. Questo delicato ed equilibrato meccanismo ci rende ragione del fatto che non ricordiamo tutto di tutto e passivamente (meno male!), ma ricordiamo solamente certe esperienze e certi eventi; il che dimostra chiaramente che la memoria a lungo termine non è indotta solamente dal comportamento soggettivo, ma è dipendente anche e soprattutto dai cambiamenti esterni, dall’ambiente, provenienti dalle vie sensitive [24].

Piatr Wozniak [25], laureato in computer science al politecnico di Poznan, ha da qualche anno ideato un metodo per fissare i concetti ed i ricordi in modo quasi indelebile individuando i momenti particolari di una curva, da lui chiamata “di dimenticanza”; secondo l’autore informatico non serve ripetere continuamente quanto si apprende, ma occorre individuare con l’algoritmo da lui individuato “Super-Nemo” il giusto momento per riportare a mente il concetto appreso. Questo meccanismo basato “sulla curva di dimenticanza” non è altro che una focalizzazione dell’esatto tempo alla nostra propensione a cancellare ciò che si è appreso in precedenza, e, presumibilmente potrebbe basarsi sul fisiologico equilibrio tra l’attivazione dei geni CRB1, attivanti la memoria a lungo termine ed i geni CRB 2 necessari per la disattivazione dei geni che cancellano la memoria. E’ in questo particolare momento che il ricordo – secondo quanto prospettato da Wozniak - che il concetto potrebbe venir stabilmente memorizzato.

Il processo cognitivo è determinato e rappresenta il risultato dell’elaborazione degli input sensoriali da una parte, integrati costantemente dalla preesistente struttura culturale. Il processo pertanto trae l’essenza dalla sovrapposizione del mondo esterno a quello in sé, e, considerando che la “robustezza della conoscenza” si attua nel tempo, con una validità proporzionale al momento iniziale del suo recepimento, è opportuno che sia ripetitivo, perché necessita di una continua integrazione e fissazione nella struttura culturale preesistente, trovando poi la sua validità effettiva dalle apposizioni di collegamenti cognitivo-sensoriali di diversa origine. Il nome di un conoscente, ad esempio, è facilmente ricordato se di lui ricordiamo il timbro di voce e dove e quando e con chi lo abbiamo incontrato. Perciò non è tanto la ripetizione mnemonica a rafforzare la memoria, quanto l’associazione multisensoriale dell’avvenimento. L’efficacia ha ora una base scientifica: il cervello si modifica nel corso dell’apprendimento e dell’esperienza sensoriale e lo fa grazie alla plasticità sinaptica.

Sin da piccolo qualche volta, e credo sia capitato a tanti, non ricordavo momentaneamente quale era il libro o l’oggetto di cui andavo alla ricerca. Mi accorgevo che ritornando sui miei passi, nell’ambiente pecedente, il titolo del libro o l’oggetto mi ritornavano a mente. Ora a settant’anni la memoria inizia a difettare e cerco di aiutarmi con quei foglietti gialli o con elenchi e schemi, sperando che la ricerca sia proficua. Ed è con interesse scientifico e personale che ultimamente ho letto due lavori inerenti la memoria su riviste di tutto rispetto: su Science riguardante l’azione della proteina PKMzeta che produce il rafforzamento di particolari sinapsi, riportando alla memoria [26] le informazioni perse precedentemente e la seconda segnalazione, quasi contemporanea alla prima, pubblicata su Neuron, che tratta il ruolo della β-adducina nel rimodellamento sinaptico [27]. Sino ad ora il rapporto tra formazione delle sinapsi ed il miglioramento mnemonico non era mai stato dimostrato. Lo studio di Pico Caroni introduce un modello sperimentale sui topi con uno specifico deficit dell’assemblaggio sinaptico. Gli Autori hanno analizzato il rimodellamento sinaptico in presenza ed in assenza della β-adducina, essenziale per la regolazione della plasticità neurale. I topi con deficit di β-adducina non riescono ad assemblare nuove sinapsi ed evidenziano una diminuzione di memoria. Gli stimoli ambientali determinavano trasformazioni anatomiche solo in presenza di β-adducina. Questo difasismo: la formazione di strutture dopo arricchimento degli stimoli e la reale funzionalità dovuta alla β-adducina, portano ad ipotizzare che le due attività siano separate. Dallo studio comunque è emerso con certezza che sia il disassemblaggio delle vecchie sinapsi che l’assemblaggio di nuove sono due momenti imprescindibili per il miglioramento della memoria ed inoltre che la β-adducina possiede un’importanza cruciale nella formazione delle nuove sinapsi. 

Il nostro primo rapporto, quando veniamo alla luce è con un essere da cui ci siamo separati ed è quello “viscerale”, vicendevole, tra la madre ed il suo cucciolo. E’ fuori di dubbio che il neonato con i suoi vagiti avverte, richiama, pretende, richiede l’aiuto della madre; ed é indiscutibile che la mamma avverte, comprende, intuisce la necessità del neonato. Solo intuizione, solo tanto amore o anche una comprensione di particolari fonemi, vagiti del proprio piccolo? O qualcosa di complesso, che riassume la propria identità differita, al proprio sentire? A tal riguardo l’acclamata violinista nei teatri di tutto il mondo, Priscilla Dunstant non ha dubbi. La sua esperienza per la nascita del proprio figlioletto, associata alla sua innata propensione alla musica, ai suoni e con la sua non comune memoria sonora, le hanno permesso di catalogare con precisione i diversi vagiti, le strilla e i fonemi del suo piccolo. L’inizio di un pianto disperato è sempre preceduto, dall’analisi della violinista, da un preciso e caratteristico fonema che il neonato emette in rapporto alle diverse sensazioni o necessità: alla fame, alla stanchezza, al mal di stomaco o ad un semplice fastidio, dal sonno o da un dolore per un’eventuale spasmo viscerale. La musicista, consigliata dal padre pediatra dell’Università del South Walles in Australia, ha redatto un meticoloso taccuino, che ha invaso il mercato editoriale americano [28].

Sin dal primo giorno di vita tra la madre ed il suo piccolo cucciolo molto tempo della giornata è dedicato allo scambio di sguardi, alla vicinanza affettuosa, ai baci, alle parole bisbigliate col tono di voce dolce e pieno d’amore e questi rapporti posseggono e determinano profonde radici evolutive perché sono cruciali per il consolidamento dei futuri legami sociali con i propri simili. Queste gestualità e questa comunicazione affettiva ed emotiva non sono prerogative degli esseri umani, perché anche i macachi si comportano “umanamente” in misura molto accentuata rispetto alle altre scimmie [29].

Durante le fasi precoci dello sviluppo postnatale la corteccia sensoriale risulta maggiormente plastica, in seguito il sistema nervoso evidenzia un importante livello di malleabilità, che comunque declina nel tempo. La “robustezza cognitiva” di cui valutiamo l’importanza solo quando la perdiamo, è essenziale, ma presenta comunque lati negativi, che sono ben espressi dal detto culturale orientale: “Insegnare ad un bambino è incidere nella roccia, insegnare ad un adulto è scrivere sulla sabbia”. Questo frase conferma da un lato la facilità dell’apprendimento di chi non possiede schemi preesistenti predefiniti; è risaputo, ad esempio, che in un contesto culturale bilingue, un bambino, in assenza di schemi preesistenti, è facilitato ad imparare senza sforzi e ad esprimersi facilmente con i due idiomi differenti e dall’altro canto un adulto è in evidente difficoltà a recepire cambiamenti e ad abbandonare le proprie abitudini.

Per evidenziare come emerge il pensiero e l’organizzazione neurale alla base dei concetti funzionali all’apprendimento è indispensabile sia indagare sul come il cervello del neonato si attivi nei primi momenti dell’apprendimento che confrontare le nostre funzioni cerebrali con quelle delle altre specie di primati, identificando inoltre i legami evolutivi alla base della conoscenza.

Nel primo anno di vita i bambini tentano di afferrare le immagini di un oggetto da una fotografia o, più grandicelli sedersi sulla seggiolina della loro bambola; l’adulto a questo riguardo possiede due sistemi cerebrali indipendenti che integrandosi determinano un comportamento appropriato: quello per il riconoscimento – detto ventrale – sulla superficie ventrale della corteccia cerebrale e quello per vedere ed agire – detto dorsale – sulla corteccia parietale superiore. La sincrona maturazione di questi due sistemi permette la corretta percezione e l’esatto movimento dell’azione. A sei mesi il bambino inizia a possedere una abilità cognitivo-matematica stupefacente: Liz Spelke [30] ha evidenziato come i piccoli siano in grado di formulare inconsciamente la somma di bastoncini, fornendo prova che il ragionamento matematico esiste già in fieri alla base del futuro sviluppo logico-matematico dell’adulto, a carico della corteccia del lobo parietale. Del resto anche le scimmie eseguono operazioni numeriche sorprendenti [31], utilizzando cellule localizzate nella corteccia parietale in zone sovrapponibili a quelle dell’uomo [32]. Lo scimpanzè possiede un cervello essenzialmente pronto al linguaggio avendo in comune con noi nell’area di Broca, la zona che sovrintende alla pianificazione ed alla produzione del linguaggio sia parlato che gestuale. Il comportamento comunicativo ha molte caratteristiche in comune con il linguaggio umano: lo scimpanzè è evolutivamente pronto al linguaggio, ma non possiede ancora il sistema fonetico idoneo [33].

Quando il bambino inizia a “ragionare” cioè ad utilizzare la capacità simbolica, allora è il momento in cui l’intelligenza logico-matematica dell’adulto, dell’emisfero sinistro, inizia la sua attività; l’utilizzo dei simboli si traduce anche con l’uso della parola, equivalente ad una sorta di traduzione (trasposizione) dal concetto memorizzato alla nuova codifica verbale. Precedentemente, e nel periodo prenatale, in assenza del possesso di concetti astratti e dell’incapacità ad archiviare i ricordi codificati, si è tuttavia capaci di memorizzare le percezioni sensoriali: quelle tattili, olfattive, le emozioni, la gestualità, i toni verbali ed in primis le funzioni del sistema nervoso autonomo; questo insieme, che rappresenta la memoria preverbale dell’emisfero destro, del cervello emotivo, si estrinseca anche nella vita adulta nei momenti che non necessitano di parole per essere avvertiti o compresi! O ancora in quelli in cui l’intuito e la sensibilità prevalgono e che si accentua in particolari situazioni attivando comportamenti creativi e ispirati. Gli artisti infatti: i poeti, i pittori, gli attori, riescono ad utilizzare il linguaggio simbolico, proprio dell’emisfero sinistro, ammantandolo, ricoprendolo ed arricchendolo col calore, con l’emotività e l’umanità propria della memoria preverbale dell’emisfero destro, aggiungendo all’azione il significato profondamente umano, che travalica il freddo ragionamento, valido per chi riduce la realtà ai freddi numeri e vede la realtà “non oltre il proprio naso”. 

La memoria presimbolica è la memoria dell’essere; quella simbolica è quella dell’avere: dell’essere che possiede come l’albero che é arricchito di frutta, dell’essere arricchito dei simboli del mondo. L’essere è il tronco, legato alla terra; la frutta è il dolce dell’esistenza, che può essere purtroppo anche guasta!

La conoscenza della realtà in cui siamo immersi, secondo la teoria dell’istruzione [34] sino ad oggi accettata, si attua tramite le sensazioni ed i simboli, che da esse derivano e che rappresentano il punto di contatto ed il tramite tra il mondo esterno e quello interno: la psiche. Questa teoria considera semplicisticamente la mente come un contenitore capace di immagazzinare e di elaborare i dati esterni pervenuti. Questo approccio al sistema cognitivo, con uno schema rigidamente deterministico e riduzionistico, valido nella sua superficiale considerazione, ha influenzato e dominato i processi dell’insegnamento per cinquant’anni [35] e in seguito è stato considerato dallo stesso proponente non completo, mancando di elementi di umanizzazione, di emotività e di coinvolgimento [36]. 

Siamo entrati nel terzo millennio conservando sì la cultura riduzionistica [37], motore delle conoscenze, ma abbiamo dimenticato, soprattutto noi medici, che la nostra funzione primaria è quella di ascoltare, dialogare e capire i nostri pazienti utilizzando necessariamente la visione olistica, di contro conserviamo e adottiamo la forma mentis che riduce qualsiasi nostro atto ad un qualcosa di meccanico, tabellare, specialistico e valido solo se inquadrabile in uno schema esogeno. 

Noi, Medici, che giornalmente ci accostiamo ai nostri Pazienti, con l’essere Uomo, la più complessa entità dell’Universo, dobbiamo necessariamente recuperare la mentalità olistica, di vecchia memoria. Dobbiamo rievocare l’ammonimento di Edward Shorter [38], che con la penna di George Bernard Shaw [39] ricordava ai Medici che “la Medicina oltre ad essere scienza, è anche arte”. Dobbiamo utilizzare anche l’emisfero destro.

Il primo impatto del sistema apprendimento è rappresentato dal rapporto tra la realtà e la soggettività come nella rete pedagogica il fulcro è costituito dal rapporto tra maestro e allievo. Ciascuno di noi, anche dopo lustri, si ricorda con gratitudine e con commozione gli insegnamenti, che abbiamo assorbito, sublimato e fatti propri dal proprio Maestro; come in altri casi qualcuno da definire “non maestro”, ha determinato un imprinting ostile, condizionando negativamente la vita del discente. Questo mi induce ad indicare che il fattore essenziale per l’apprendimento è l’empatia, che emerge tra chi dona ed insegna a recepire conoscenza e chi l’assorbe e la fa propria.

Si è sempre pensato che tra docente e discente il linguaggio fosse il tramite: é questa una verità incontrovertibile. Ma, come tutte le verità devono essere considerate alla luce delle acquisizioni scientifiche recenti, che danno loro una validità ancor più consistente. 

Già Nietzche affermava che per comprendere l’altro ci si deve porre in una situazione interna prospettica di tipo imitativo, che producendo sentimenti analoghi ci accomuna all’altro [40]. Anche Freud nel ’21 nell’avvicinarsi alla mente dell’altro e nell’identificarsi, prospettava di utilizzare l’imitazione e, più tardi, affermava che la psiche altrui è conosciuta e fatta propria con l’empatia. Anche per Husserl l’esigenza della comprensione interpersonale derivava dal concetto di “paarung”, accoppiamento della soggettività propria con quella altrui, per cui ponendosi nell’altro e immedesimandosi, lo si comprende.

Non siamo soli, siamo lo specchio degli altri e siamo con i nostri simili uniti dall’empatia [41].

L’imitazione, l’apprendimento gestuale e verbale ed anche la possibilità che possediamo di comprendere e vivere le emozioni altrui rappresentano l’effetto di una rete i cui nodi sono rappresentati dai neuroni specchio; la condivisione del dolore, la percezione del disgusto attivano le stesse aree cerebrali coinvolte quando siamo noi stessi a percepirle. 

La verità è che ogni individuo, ogni unità è in contatto con gli altri, da vicino, da lontano, con tutte le possibilità di comunicazione che abbiamo a disposizione: ad iniziare dall’espressione istintiva del volto, dai gesti, sino ad utilizzare il linguaggio, che evolutivamente è la forma più elevata di comunicazione. Il tutto trae origine e viene integrato e favorito dall’attività dei neuroni specchio [42], nodi di una sorta di rete connettiva immateriale. Ora le relazioni interpersonali [43] sono interpretabili con questi recenti contributi della ricerca neuroscientifica, che rappresentano per la Neuroscienza [44] lo stesso impatto che il DNA ha determinato in Biologia. 

Sino a pochi anni fa le aree motorie erano considerate cabine di comando destinate a compiti fondamentalmente esecutivi, a loro volte coordinate ed istruite da centri superiori: questa interpretazione era il risultato evidente di una concezione autoritaria, piramidale che ancora prevale, e che tuttora condiziona il nostro pensiero. Questo schema verticistico è stato convincente fino a quando l’immagine del sistema motorio era considerata una semplice risposta motoria, il cui esempio paradigmatico si esprime nel riflesso osteotendinico: fibra sensitiva che conduce l’impulso afferente, centro di comando, risposta motoria successiva!

Ora sappiamo che il sistema motorio è oltremodo complesso, perché si integra con le aree della corteccia: quelle frontali e parietali, a loro volta connesse con quelle visive, uditive e tattili. Sappiamo inoltre che esistono neuroni che si attivano non in relazione ai semplici movimenti, ma anche ad atti motori finalizzati alle azioni da svolgere, come l’afferrare, il prendere, il tenere ed il manipolare.

Perciò il rigido confine – espressione di uno schematismo preconcetto – tra processi percettivi, cognitivi e motori si è rivelato artificioso in quanto l’integrazione e la complessità esistente determinano l’unitarietà del sistema, che, nell’atto stesso dell’agire, comprende e intende. Ricordo a questo proposito quel detto orientale: “Quando ascolto dimentico, quando vedo ricordo e quando faccio, capisco”. Gli elementi essenziali per la comprensione di questa effettiva integrazione sono stati proprio i “neuroni specchio”, scoperti negli anni novanta. 

L’esperimento cardine che permise il loro riconoscimento fu fatto da Rizzolati [45], Fogassi [46] e Gallese [47], dell’università di Parma, mentre indagavano l’attività elettrica dei neuroni specializzati nel controllo dei movimenti della mano dei macachi, dopo aver loro inserito degli elettrodi nella corteccia frontale inferiore; ad ogni azione di prensione della scimmia i neuroni si attivavano. E con grande meraviglia gli stessi neuroni si attivavano anche quando il macaco vedeva lo sperimentatore prendere la banana da utilizzare per l’esperimento successivo. La prima volta si pensò ad un guasto della strumentazione; invece quella osservazione ha rappresentato l’inizio di una delle più importanti rivoluzioni cognitive delle neuroscienze: la conoscenza delle azioni e finanche delle intenzioni altrui deriva dal patrimonio motorio che l’osservatore possiede. Conosciamo gli altri conoscendo le stesse azioni che noi stessi sappiamo compiere. I neuroni specchio in altre parole consentono la correlazione tra i movimenti osservati e quelli già acquisiti, in modo da riconoscere il significato del movimento altrui. Il tutto senza far ricorso al ragionamento, ma basando il significato solo sulle proprie esperienze motorie. I neuroni specchio si attivano quando vediamo altri fare un’azione che noi stessi già sappiamo fare. In pratica abbiamo la capacità di far vivere le intenzioni degli altri dentro di noi. 

Il prof. Rizzolati all’Accademia delle Scienze di Torino, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Neuroscienze, ha affermato che “vedere gente felice rende felici”. Le ovvie verità vengono attualmente sperimentalmente dimostrate!

Le scienze cognitive sino ad ora hanno scarsamente considerato le influenze essenziali che la socialità, l’interscambio, la reciprocità delle esperienze e in definitiva l’empatia, determinano sul processo dell’apprendimento. Nelle relazioni umane, considerate come reti, il successo dipende da diverse caratteristiche: dalla simpatia, dalla bravura, dal carisma, dal talento dal tono della voce, dalla bellezza. Tutte queste qualità attrattive possono venir espresse cumulativamente col termine di “fitness”, che indica le caratteristiche positive capaci di catturare, di interessare, tanto da indurre il cibernauta al collegamento preferenziale. Come nel caso di un incontro, a far innamorare a colpo d’occhio. E’ recente la dimostrazione che bastano 50/millesimi di secondo [48] a determinare l’interesse verso qualcuno o qualcosa; é questa una caratteristica di noi umani: considerare in un batter d’occhi il nostro interlocutore, se amico o con intenti ostili; del resto questa nostra qualità ha contribuito significativamente al nostro cammino evolutivo, salvandoci nei millenni da chissà quanti pericoli ed aiutandoci a scegliere la persona idonea per la continuazione della specie!

Il linguaggio è un collegamento, è un rapporto tra pensieri tradotti in diversi piani, come il suono veicolato in diversi fasi, nell’aria o quando, trasformato in impulsi elettrici o in onde herziane per essere udito, deve ripercorrere all’incontrario le stesse trasformazioni. Del resto tra i nostri pensieri e le nostre parole usiamo vari filtri di diversa consistenza, che comunque possono essere raggruppati a volte col termine: ipocrisia, e traggono origine da consuetudini, dalla cultura e dal nostro stesso essere: non a torto Voltaire [49] affermò che “gli uomini usano la parola per nascondere i loro pensieri”, anche se i simboli e le parole sono per la mente come gli attrezzi per le mani. Ed esprimono auto-organizzazione e contemporaneamente una transizione di fase. Infatti il linguaggio, uno degli aspetti evolutivi più significativi della nostra specie può essere considerato un esempio di un sistema adattativo, che si auto-organizza rappresentando cioè l’emergenza del pensiero da una base strutturale organica. I bambini, ad esempio, imparano a parlare seguendo una schema imitativo universale: dapprima imparano a riprodurre i suoni, poi i nomi degli oggetti più comuni, poi i verbi, gli aggettivi e gli avverbi in analogia con gli stimoli che ricevono dall’esterno: suoni, voci ed azioni. 

In linea con la concezione che il linguaggio rappresenta una dinamica emergente dei rapporti che ci connettono con la realtà ed i nostri simili, Deb Roy del MIT di Boston ha programmato un esperimento [50], che consiste nel registrare e riprendere con una telecamera il figlio neonato per 14 ore al giorno sino all’età di tre anni, in modo da risalire alle dinamiche che consentono alla specie umana ad imparare a parlare, esprimersi e comunicare, partendo dal “nghe, nghe”, primo fonema universale, che ci unisce agli altri nel mondo, sino all’acquisizione di un linguaggio fluente. 

L’evoluzione del linguaggio umano secondo una teoria universalmente accettata consisteva nella transizione da una comunicazione non combinatoria ad una combinatoria. Solo recentemente questa teoria è stata confutata sperimentalmente da ricercatori dell’Università di St. Andreas dimostrando che i primati della specie cercopitecus nictitans sono capaci di veicolare significati combinando singoli segnali d’allarme; Zuberbuhler [51] alla fine dell’articolo ha concluso che il certopitecus usa la combinazione di morfemi nonostante ne possegga pochi, come nella maggior parte dei primati, perché la varietà dei fonemi è in tutti limitata per lo scarso controllo dei movimenti della lingua.

Il linguaggio dell’uomo è caratterizzato da una cinquantina di fonemi – unità di base dei suoni prodotti – a differenza degli scimpanzè che ne posseggono solo una dozzina. Il linguaggio è strutturato da un’innata capacità grammaticale [52] forse prodotta da attività geniche. Tutte le lingue del mondo infatti posseggono una grammatica complessa che permette di assemblare una infinità di frasi partendo da un numero limitato di vocaboli. Anche in questa mirabile attività, che emerge da singolarità, possiamo intuire ed intravedere un’attività caotica deterministica: dinamica non lineare, dipendente dalle condizioni iniziali e foriera di meccanismi di retroazione. I bambini infatti spontaneamente imparano le regole sintattiche solo ascoltando gli adulti e il loro impegno mnemonico affronta solamente i vocaboli. Imitando i suoni, utilizzando le labbra per succhiare il latte materno e trasferire in “mmamm” il significato di calore, di appartenenza e di conforto, e poi via via le rimanenti facili parole, sempre labiali: i “pap”, poi imitando i suoni, l’abbaiare del cane o il brontolio del tuono! E’ indicativo che la parola mamma nelle diverse lingue sia prodotta con suoni labiali (mamma in cinese “mama” e “baba” papà). Tutti abbiamo iniziato a parlare e ad arricchire il nostro vocabolario a partire dai diciotto mesi d’età grazie ad un inconscio procedimento matematico proposto in un modello teorico formulato da psicologhi dell’università dello Yowa. Per Mc Murray, coordinatore della ricerca [53] sul come il bambino inizia a parlare, non è necessario alcun speciale apprendimento per giustificare il passaggio dalle prime parole: “mamma, pappa, papà” a discorsi più articolati. I bambini imparano le parole in parallelo: “Apprendere una parola spesso consente di impararne un’altra, spesso più semplice. E ogni volta che nella memoria viene inserta una parola di difficoltà differente, la velocità di apprendimento aumenta”. Con questo meccanismo a diciotto mesi i vocaboli appresi sono più o meno cinquanta, ma già a due anni e mezzo si arriva ai trecentocinquanta e ai tre anni e mezzo a seicento parole.

Nell’ottobre 2002 comparve uno studio, coordinato da Anthony Monaco su Nature eseguito su una famiglia in cui diversi componenti presentavano difficoltà a produrre ed a comprendere il linguaggio, difficoltà evidenziate in soggetti di altre famiglie; lo studio genetico ha permesso di individuare sul settimo cromosoma il gene FoxP2”, in seguito chiamato “il gene del linguaggio”. Questo gene, presente anche nei topi, codifica per una proteina che partecipa alla regolazione dello sviluppo dell’encefalo. Questo studio [54] che è stato il primo frutto del Progetto Genoma per le neuroscienze potrebbe costituire [55] l’avvio di una genetica cognitiva. La scoperta è certamente importante, ma, come tutte le indagini di tipo genetico, deve essere sfrondata dall’imperante determinismo: perché del FoxP2 si può affermare che partecipi alla disposizione genetica atta a spiegare alcuni disturbi del linguaggio, e non altro, perché in caso contrario, continuando a trovare geni specifici si potrebbero evidenziare il gene dell’Iliade e quello per l’Amleto, ricadendo nel più marcato determinismo [56]! Il gene FoxP2, presente anche nelle scimmie e nei topi da otto milioni di anni, negli uomini ha evidenziato in un tempo relativamente breve, negli ultimi 200.000 anni, due riarrangiamenti, a dimostrazione dei cambiamenti evolutivi avvenuti.

Il linguaggio, tramite le parole, accomuna ed associa, e rappresenta un collegamento culturale tra gli individui, ma non è l’unico, perché è stato preceduto da una forma comunicativa originata dalla gestualità, millenni prima del suo completo sviluppo. Anche gli scimpanzé ora riescono a farsi comprendere con i gesti, utilizzando le mani, il corpo e la mimica facciale, associandoli sempre a vocalizzazioni indistinte, perciò, ed é accettabile, che l’inizio del linguaggio sia stato preceduto ed accompagnato dal linguaggio gestuale. Del resto il linguaggio umano è iniziato ad evolversi dai 7 ai 15 milioni di anni fa, sin da quando si è instaurata la divaricazione dei nostri antenati ominidi dalle scimmie antropomorfe. Con certezza l’ulteriore sviluppo del linguaggio si è manifestato 50.000 mila anni fa quando il genere Homo ha iniziato a seppellire i morti ed ha mostrato capacità simboliche, che si sono estrinsecate con manufatti di nessuna utilità pratica e non finalizzati alla semplice sopravvivenza [57], o ancora, con la raffigurazione di figure antropomorfe e zoomorfe. Cioè da quando l’uomo ha progressivamente incrementato le attività culturali, mattoni essenziali anche per lo sviluppo creativo e mentale, evidenziando l’emersione di un sistema auto-organizzativo, che si è sviluppato esponenzialmente. Infatti la composizione grafica più antica risale a 75.000 anni fa ed è stata rinvenuta nel Sud Africa.

I neuroni specchio non solo costituiscono un esempio di rete immateriale, ma sono stati essenziali per lo sviluppo della comunicazione tra gli individui e rappresentano anche la dimostrazione di come il determinismo viene dai fatti superato.

Le parole che sono state maggiormente utilizzate nel tempo rimangono costanti [58], restando radicate nel linguaggio e dando conferma al detto: “squadra che vince, non si cambia”! Perché la loro stabilità è in relazione al loro utilizzo [59]. La singola parola porta non sempre con sé la precisione, ma a volte anche l’imprecisione e soprattutto l’ambiguità; del resto la pluralità dell’interpretazione è l’essenza della narrativa, il profumo della poesia e anche del parlare quotidiano. Si può affermare anche che l’ambiguità sia un mezzo espressivo. A differenza del computer che utilizza un linguaggio estremamente preciso: in caso di una pluralità interpretativa segnala: errore; e, non a caso, alcuni affermano che il computer è sì una macchina essenziale, ma stupida! La parola esprime l’oggetto, il pensiero, ma se per ciascuno di noi rappresenta la stessa entità, per ciascuno di noi porta con sé un’atmosfera di ricordi, di contingenze di espressioni, che la rendono eguale al significato che per noi esprime. La parola esprime un significato, ma il significato è essenzialmente soggettivo. Si pensava che ad ogni parola corrispondesse una conoscenza astratta; oggi si pensa che ciascun vocabolo evochi un insieme di esperienze: ogni volta che pronunciamo “gatto” diciamo qualcosa di diverso per ciascuno di noi, la diversità è in relazione alle diverse esperienze ed ai diversi ricordi personali. La parola gatto può ricordare il calore sonnacchioso di Fido ronfante o il graffio che ci ha , come ricordo materiale, graffiato la guancia! La concezione astratta della parola è rigidamente deterministica, mentre ciò che realmente manifesta è la concezione caotica e disordinata, risultante dall’integrazione di varie aree cerebrali, che integrandosi [60] cumulativamente la esprimono.

Il significato del linguaggio è difficile da definire, ma rappresenta un cardine dell’informazione. Quale è il significato che l’informazione possiede? Dipende dalla rappresentazione e dall’interpretazione dell’informazione, dipende dal contesto, dalla cultura e dall’ambiente. Due dita alzate possono significare una quantità riferita a diversissime entità, ma anche possono significare vittoria o esprimere dileggio ed offesa!

Il significato rappresenta la relazione tra due entità: tra la parola che viene espressa e ciò che viene recepito dalla parola, tra l’oggettività e la soggettività.

Sappiamo che gli uomini sono simili, ma non sono uguali: ricchi, sognatori, poveri, studenti, avari, operai, impiegati, indù, preti, cittadini francesi, cinesi, casalinghe, tirolesi, prostitute, politici, tipografi; tutti percepiscono la realtà in modo diverso e danno al mondo un significato particolare al loro modo di percepirlo. Esistono enormi differenze culturali che ammantano di significati profondi e dissimili le eguali e sovrapponibili esperienze di vita. Il linguaggio ne è la prima testimonianza: una parola che esprime un significato può essere traducibile in un’altra lingua, ma assumere un significato diverso [61]. La parola “mind”, mente, ad esempio non é traducibile con lo stesso significato: in russo è tradotta col termine “dusa” che significa anima; in inglese Mind e body; in francese originariamente (Cartesio) ame e corp. Queste diversità lessicali sono chiaro indizio di differenti universi culturali, esplicitati dalle diverse lingue, in popoli, quelli europei che grosso modo traggono origine dallo stesso ceppo, nonostante che per secoli tanti elementi storici li abbiano accomunati. La parola evidenzia differenti universi culturali: e questi danno origine al diverso significato che si attribuisce alla parola tradotta. 

Esistono vari gradi di significato: quello metonimico, cioè quello di una parte che rappresenta il tutto, ad esempio la nube scura che dà l’idea, il significato, di un temporale; quello iconico: ad esempio la statua di un condottiero; e ancora il simbolo linguistico, che rappresenta qualcosa di immateriale. Questi diversi tipi di significato sono parti importanti del pensiero umano e influenzano fortemente la vita stessa. Una storiella osé può far arrossire, una foto di un cibo prelibato può far venire l’acquolina in bocca. Lo stesso meccanismo si attua col cosiddetto effetto placebo [62]: se qualcuno vi assicura che la pillola che dovete assumere per il vostro forte dolore al dente del giudizio, il vostro organismo conseguentemente aumenta la produzione di endorfine, determinando la riduzione del dolore ancor prima di assumere la medicina!

L’attività cerebrale come tutte le dinamiche e le attività naturali, in primis quelle biologiche, è per definizione complessa perché non è lineare, è dipendente dalle condizioni iniziali (l’effetto farfalla di Lorenz) e porta con sé il germoglio dell’autorganizzazione. A sostegno di quanto affermato basta considerare che l’elettroencefalogramma di una persona normale si presenta estremamente più complesso e caotico di un elettroencefalogramma di un ammalato mentale. Il caos conferisce al cervello un notevole vantaggio perché i sistemi complessi producono continuamente attività innovative in altri raggruppamenti neuronali; il cervello sano infatti è in grado di attivare continuamente nuovi circuiti, creando nuovi contatti con un ordine spesso casuale che, per la dipendenza sensibile delle condizioni iniziali, giustifica l’ideazione, l’originalità e la apertura di nuovi schemi di pensiero. Al contrario, la malattia mentale è foriera di ordine, di ripetitività, e di assoluta “cristallizzazione” del cervello e, non a caso, dietro la scrivania piena di carte e disordinata del noto cardiochirurgo Cooley, era appeso un cartello che recitava: “A net desk is a sign of a sick mind”[63].

Anche l’apprendimento sottostà alla semplice regola ubiquitaria: l’apposizione della contingenza su una rete strutturale preesistente, cioè l’integrazione tra questi due elementi che giustificano una certa evoluzione tra rigidità e diversità, a rappresentare un’entità emergente che genera infinite possibilità, non ottimali, né controllabili e tanto meno prevedibili. Come l’ideazione: di cui conosciamo i tre tempi del pensiero, definiti dal fisico Hermann Helmholtz [64]: riflessione, che arriva sino allo stadio di saturazione, poi l’incubazione, che il più delle volte è inconscia ed infine l’illuminazione, cioè l’ideazione, ovvero il lampo di genio. Ecco il motivo per cui tante persone, che sono in grado di recepire tanti input (e sono classificate disattente), possono cogliere l’essenza di un problema o la sua risoluzione, mentre altri, che seguono pedissequamente e con ordine una strada, possono non vedere l’orizzonte che li circonda, e perdere la bellezza del sorgere del sole ed del tramonto, e non accorgersi dei fiori sul ciglio della strada. 

Ma torniamo al linguaggio che costituisce non solo una rete in senso orizzontale per dialogare con gli altri e valutare la realtà, ma inserito nel flusso del tempo un elemento per comprendere l’evoluzione delle società e delle popolazioni diversificate a vari livelli: dai gruppi tribù, stati ed imperi. In effetti il linguaggio rappresenta l’espressione di come le popolazioni si sono aggregate, evolute, diversificate rappresentando una rete evolutiva analoga a quella delle specie biologiche. Questa visione è stata utilizzata dall’antropologo inglese Tom Currie della University College di Londra che ha analizzato i diversi linguaggi come fossero geni usando la lingua, un idioma, come fosse un elemento quantitativo simile ai segmenti del DNA per i genetisti. Con questa metodologia ha studiato l’evoluzione culturale e sociale di una popolazione estesa dal Madagascar alle Hawai includendo quelle del Sud-est asiatico e dell’Oceania che utilizzano quattrocento idiomi. Questo studio [65] ha evidenziato che la complessità evoluiva di una società procede a piccoli passi aumentando o a volte diminuendo e raffigurando nel tempo quello che nel ‘700 il filosofo napoletano Gianbattista Vico [66] condensava nel famoso detto “ dei corsi e ricorsi storici”. Pertanto il linguaggio deve essere inteso anche come una dinamica strutturale costituito da un impianto simil-matematico su cui si inserisce apponendosi la contingenza; elementi questi che accomunano universalmente la realtà.

Un’informazione può essere veicolata da semplici fonemi sino al linguaggio strutturato e trae origine dal centro motorio di Broca, ove inizialmente ebbe origine l’informazione gestuale. L’informazione ridotta alla sua essenza concettuale e non intesa solamente in senso strutturale fu etichettata da Dawkins [67] col termine meme: la minima informazione paragonabile a quella propria del gene – elemento informativo strutturale che è alla base della genetica. Il termine meme deriva dal greco (memesis) e dal francese (meme) che entrambi significano imitare: praticamente è quel qualcosa – l’informazione – che volenti o nolenti il nostro sistema conoscitivo imita e trasferisce ad altri dopo averlo riprodotto. Anche gli uccelli a volte possono venir considerati replicatori di memi sonori; provate a fischire interferendo col canto di un merlo o di un usignolo e, dopo poco, potrete notare la loro capacità imitativa soprattutto se da parte vostra cercherete in qualche modo di imitarli e di stabilire dei “dialoghi fischianti”!

L’imitazione esprime pertanto un contatto e rappresenta la base dell’informazione. 

La relazione tra mente e mente può essere attuata anche tramite strumenti o strutture tecniche ideate dall’uomo che in tal modo può essere imitata e riprodotta [68].

Potremmo paragonare il meme alla stregua di un virus, che per riprodursi ha la necessità di penetrare in una cellula (apparato riproduttore), mentre il meme, invadendo la mente, la utilizza per la replicazione e la sua diffusione.

Secondo Susan Blackmore [69] il significato basilare del termine meme è da considerarsi replicante nell’ambito di un processo evolutivo suo proprio, indipendente dalla nostra evoluzione, tant’è vero che utilizza non solo la macchina umana, ma anche altre nuove macchine riproduttive, che si sono evolute e continueranno ad evolversi grazie all’evoluzione tecnologica ancora per poco attuata da noi umani, ma che nel prossimo futuro acquisirà una loro propria indipendenza. Il meme pertanto è come il gene, non persegue alcuno scopo prefissato, il suo obbiettivo è solo quello di essere replicato per continuare ad esistere.

La storia del “meme” inizia con la pubblicazione de “Il gene egoista” che ha posto il gene stesso come unico elemento basilare della filiera evolutiva capovolgendo l‘idea sino ad allora acquisita, che il fulcro della selezione naturale fosse l’interesse dell’individuo e della specie – idea che caparbiamente ancora impera negli ambienti ecclesiastici, che considera l’uomo al centro dell’universo. Del resto anche la storia della paleontologia dimostra che, oltre alla memoria custodita negli strati delle rocce, esiste quella della vita stessa rappresentata dal DNA: la paleogenetica, che solo da una trentina d’anni viene utilizzata; la genetica molecolare infatti permette di inquadrare temporalmente la realtà evolutiva in modo più preciso e maggiormente selettivo. Non se ne parla tanto perché per alcuni forse dà fastidio che si sappia che il proprio genoma differisce da quello dello scimpanzè solo per meno del 2% e che contiene geni in comune con moscerini [70], vermi [71] ed addirittura con il corallo [72]!

A ben considerare l’essenza vitale della genetica è rappresentato dal filamento del DNA, riuscito egoisticamente a sopravvivere, anche modificandosi a tutte le sue secondarie estrinsecazioni fenotipiche e genotipiche!

I geni usano le cellule e gli organismi per sopravvivere e diffondersi, come il meme utilizza il nostro cervello alla stregua di una fotocopiatrice. Il meme rappresenta un’informazione copiata da una persona all’altra non interferendo né sull’individuo né su i suoi geni, ma con l’interesse esclusivo del meme medesimo. Ecco il motivo per cui i memi, come i geni stessi, possono essere etichettati giustamente egoisti. Questo enunciato è vero, ma, come vedremo non è vero all’inizio della nostra storia evolutiva. Solo la contingenza può causare l’interruzione del flusso evolutivo sia a livello del DNA che del Meme, che comunque riescono a trovare sempre la loro nuova strada.

L’evoluzione si attua per il confluire di tre elementi: la possibile variabilità dei geni, la possibilità di conservare le variazioni e da ultimo la selezione naturale a livello fenotipico e genotipico. Questi tre elementi costituiscono l’algoritmo genetico di Dennet [73], che ovviamente esclude un progetto pianificatore, ma è, come scriveva, regolato dal vento del tempo ed aggiungo dai battiti d’ali di farfalle ed anche dalla necessità dei suoi prodotti di contrastare il secondo principio della termodinamica. Accanto a questo processo genetico evolutivo si è attuato quello memetico che certamente è nato da un’ancestrale informazione di pericolo, quella sonora, emerso dall’apparato vocale più efficace ed immediata, perché avvertibile da più soggetti contemporaneamente rispetto a quella gestuale o mimica; il grido emesso per manifestare un pericolo o il dolore subito certamente ha prodotto un effetto positivo sui compagni di viaggio avvertendoli e salvandoli dalla belva e, con il passare dei millenni i memi poi sono stati frammentati ed il meme copiato si è aggiunto ad altri contribuendo alla formazione delle parole ed il loro significato divenne più selettivo ed efficace. Così potrebbe essere nato anche il linguaggio, mentre la sua iniziale forma per la sua semplicità ha continuato la sua progressione evolutiva conservando la sua immediatezza propagandosi e, come i virus, accompagnando l’evoluzione umana. Il meme si è ovviamente coevoluto all’evoluzione dei replicanti tanto da poter in seguito usufruire di macchine fotocopiatrici più efficienti: il telefono, la radio, i fax, la televisione e la rete internet, che, con i social network, costituiscono una cassa di risonanza memetica espandendosi e relegando il nostro cervello fotocopiatore al ruolo di creativo isolato o nella maggior parte dei casi di semplice spettatore passivo. Forse a noi è rimasta una nicchia ancora da considerare quella riguardante solo la creatività, che sottostà alle stesse regole dell’algoritmo genetico di Dennet: la possibilità di variazione, la ricombinazione ed il riuso dei memi con nuove possibilità ideative! Ed è, credo, l’unica nicchia che il povero ominide oppresso dalla mente globale in fieri, può ancora coltivare. Anche se è prevedibile che lo sviluppo della rete acquisisca capacità autorganizzative tali da relegare le nostre menti ad un livello inferiore della mente globale! 

E per finire consideriamo il linguaggio delle cellule che rappresenta l’essenza della rete dinamica funzionale di questo essenziale microcosmo biologico.

Ho ricordato illustrandovi “l’insieme di Cantor” che evidenzia come singole parti separate sono tutte unite da una storia comune e fanno parte dello stesso sistema. Vi ho parlato del linguaggio, che costituisce il rapporto tra individualità separate e che rappresenta la parte della rete che connette i singoli individui, consideriamolo pertanto il principale fattore di aggregazione, perché unifica le parti e le rende coese. Aggiungo ora che la rete comunicativa tra le cellule si estrinseca su due livelli: quello individuale, facilmente intuibile, tra cellula e cellula o tra cellula e gruppi di cellule, ed un secondo, quello corale, che da poco si inizia a considerare ed a studiare e che certamente esprime in termini più significativi l’unicità e la coesione delle parti; questo secondo livello di aggregazione é la sincronia. 

La sincronia è un elemento comune della natura e si manifesta in numerosissimi sistemi animali e vegetali. Fenomeni di sincronizzazione collettiva si evidenziano ad ogni livello di organizzazione biologica: la contrazione delle cellule cardiache, che sincronicamente vengono stimolate da un pacemaker naturale, la rete neuronale che coordina il ritmo nictemerale, la secrezione insulinica ad opera delle cellule β del pancreas, sino ad arrivare alla sincronia del ciclo mestruale di gruppi di donne che vivono nello stesso ambiente, forse a causa dei feromoni.

Anche la coscienza, il più affascinante e sconcertante mistero scientifico e metafisico dell’Universo, quel quid che ci fa percepire noi stessi, il nostro Io, é frutto della sincronia che la nostra rete neurale condiziona ed esprime. Questo é un problema affrontato da filosofi, psicologi, neuro-scienziati, informatici. Non sappiamo cosa sia e da quali neuroni tragga origine. In una frazione di secondo riusciamo a focalizzare il tempo, la situazione presente e passata e possediamo una miriade di stati di coscienza, che si adattano all’evolversi della realtà percepita da suoni, visioni, ricordi e selezioniamo le nostre risposte con un’elasticità impressionante. Quale ruolo hanno i neuroni nel determinismo dello stato di coscienza? Come questa massa gelatinosa, ma compatta, di circa 1 Kg e 400 grammi, costituita da centinaia di miliardi di neuroni, da centinaia di triliardi di sinapsi, da oltre mille chilometri di assoni e dendriti e la corteccia cerebrale dello spessore di due millimetri, che srotolata avrebbe una superficie pari a quella di un tavolo di ping-pong, come queste entità anatomiche riescono ad esprimere quel quid, chiamata coscienza? E a ricordare circa 10 miliardi di informazioni che ben si correla all’immensa possibilità di memorizzazione degli ologrammi: abbinamento considerato e prospettato, come detto (pag. 70) dal neurofisiologo Karl Pribam [74].

Certo è che da questo substrato si estrinseca l’attività neuronale e lo stato di coscienza è certamente frutto di una realtà evolutiva ed adattativa. Dal punto di vista fisiologico, ed è un dato incontrovertibile, lo stato di coscienza comporta l’attivazione di neuroni situati in molte regioni cerebrali e dipende dalla coordinazione che si evidenzia e determina l’unicità della coesione generale.

Da pochi anni si è dimostrato sperimentalmente che il meccanismo con cui si attua questa coesione, lo stato di coscienza, è la sincronizzazione neuronale. L’esperimento [75], tra i più avanzati della ricerca neurofisiologica, consisteva nella registrazione delle attività di più di 100 neuroni di due aree della corteccia visiva (A18 e PmLS) di un gatto, a cui si mostravano due segmenti luminosi che si muovevano ad angolo retto con luminosità diversa. Quando il segmento di destra era più luminoso un’area si attivava, quando era più luminoso quello di sinistra la seconda era più attivata, quando le due strisce erano ugualmente luminose il gatto le percepiva come un’unica entità, ma il dato più significativo era che i due gruppi di neuroni evidenziavano una perfetta sincronizzazione, dimostrando che la sincronia è alla base dello stato di coscienza. A proposito della nostra coscienza uno studio recente condotto da neuroscienziati del Max Planck Institute per le scienze cognitive di Lipsia in Germania, guidati dal neuroscienziato John-Dylan Haynes ha evidenziato che quando prendiamo una decisione abbiamo consapevolezza di averla presa con dieci secondi di ritardo [76].

Sappiamo che una formica possiede un minuscolo cervello capace di distinguere pochi segnali feromonici e la sua attività è limitata come quella dei nostri neuroni valutati singolarmente, che, se eccitati da un neurotrasmettitore sono in grado di produrre solamente una tensione elettrica ad altri simili tramite il rilascio di ioni. Il segnale nervoso di natura elettrica si propaga lungo gli assoni fino a che non incontra una sinapsi, cioè il punto di contatto con un altro neurone. L’informazione elettrica viene tradotta con dei messaggeri chimici, i neurotrasmettitori, e traghettata al neurone successivo, che ritraduce il segnale in elettrico e così via. Spesso i neuroni vengono identificati in base ai neurotrasmettitori usati e solo recentemente è stato osservato che i neuroni dopaminergici, che usano cioè la dopamina, utilizzano come “secondo” neurotrasmettitore, il glutammato [77]. In questo modo sono in grado di trasmettere contemporaneamente due tipi di segnali nel cervello. Ciò nonostante il neurone non pensa, non decide, non modifica il segnale: è solamente collegato con altri, come la singola formica con le sue compagne del formicaio.

Un singolo neurone di Einstein era uguale ad uno mio o tuo, ma i tanti miei e tuoi non riescono a far emergere quello che sono riusciti ad Einstein; la differenza sta nelle connessioni, nella rete autopoietica, determinata soprattutto, come ha dimostrato Edelman, dalla contingenza e solo in minima parte dalla struttura genica.

I 302 neuroni del vermetto di laboratorio, il “Caernorhabditis Elegans”, sono sufficienti alla gestione della sua vita strisciante; ma il problema per comprendere ed interpretare il funzionamento della sua corteccia, come della nostra, è, a dir poco immenso! Ciononostante numerosi sono gli studi programmati per affrontare e comprendere come si svolgano le attività corticali: vanno dallo studio dell’attività elettrica sui singoli neuroni durante le operazioni neurochirurgiche, ricerche estremamente difficili da attuare e sopratutto concettualmente riduttive, oppure su gruppi e regioni dell’encefalo, come sull’ippocampo, e ancora con l’utilizzo delle neuro-immagini delle varie aree corticali, idagate durante la loro attività in quanto consumando maggior quantità di glucosio modificano la loro risonanza magnetica nucleare, rendendosi visibili. E’ stato Raichle, professore di Radiologia, Neurologia, Neurobiologia e di Ingegneria Biomedica presso la Washington University di St Louis, che ha dato contributi eccezionali allo studio della funzione del cervello umano sviluppando e utilizzando la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI), che rappresentano le tecniche di imaging funzionale del cervello, essenziali per gli studi di frontiera delle neuroscienze cognitive.

Poiché i neuroni posti in coltura posseggono la capacità di connettersi tra loro, è stata programmata anche una ricostruzione di una rete, saggiando poi le risposte di questa nuova struttura alla stimolazione; sono stati utilizzati milleseicento neuroni posti sulla superficie di una sfera collegando ciascun neurone con quelli attigui; l’attività di un neurone era in grado di convogliare un’onda che si esauriva immediatamente; collegando invece tutti i neuroni tra loro, l’attività elettrica mostrava fasi alterne di attività e di quiescenza; creando invece connessioni “piccolo mondo”, cioè sia locali che a distanza, si evidenziavano sulla superficie della sfera aree di attività, che diffondendosi e a volte intersecandosi, si propagavano a formare cerchi simulando il normale funzionamento della corteccia cerebrale [78].

L’attività neuronale è stata anche indagata su piccoli agglomerati di tessuto cerebrale cresciuto in coltura [79] su piastre di Petri. La registrazione effettuata, inserendo sessantaquattro microelettrodi nell’insieme di neuroni, ha documentato un’attività definita “valanga neuronale” [80], che ha evidenziato una tipica dinamica complessa: da un neurone parte la scarica, che si diffonde con la classica distribuzione alla potenza, evidenziando anche l’effetto farfalla e dimostrando la non linearità dell’evento. A questo neotessuto sono state applicate stimolazioni elettriche di diversa entità: se deboli provocavano una risposta intensa nei neuroni vicini, se la stimolazione era forte veniva distribuita ad un numero di cellule maggiori. Questi effetti regolativi possono essere considerati il germe, il battito d’ali, dell’autorganizzazione propria della dinamica elettrica cerebrale.

Due matematici Daniel N. Rockmore e Pauls [81] del Dartmouth College analizzando le immagini ottenute con la risonanza magnetica nucleare (f MRI) in un normale soggetto volontario, durante il riposo, hanno messo in evidenza variazioni dell’attività di ciascun “voxel”, l’unità minima di volume cerebrale grande come un grano di pepe, ed hanno osservato che queste unità voxel si possono dividere in 23 gruppi, ciascuno dei quali fa parte di uno dei quattro gruppi maggiori; questi quattro gruppi sono uniti da un circuito di onde circolari cicliche. Lo stesso studio sarà attuato in soggetti non a riposo, ma mentre pensano, al fine di poter individuare i già supposti engrammi (percorsi di memoria) immaginati teoricamente cento anni fa, con l’intento di poter arrivare, in un futuro non più tanto lontano, a trasformare le neuroscienze in una sorta di scienza predittiva.

La lettura del pensiero ha comunque fatto passi da gigante. Jack Gallant dell’Università di Berkely ha reso possibile registrare gli stimoli visivi e catalogarli in base ai quadri ottenuti con la risonanza magnetica funzionale e preconizza un giorno non lontano la possibilità di codificare i sogni, i ricordi ed anche i pensieri astratti. La decodifica mentale cioè la lettura del pensiero avviene in tre fasi: nella prima lo scanner registra i flussi sanguigni cerebrali durante la visione di una serie di immagini; successivamente il computer analizza l’attività del cervello durante la visione di ogni singola immagine, confrontando le reazioni della corteccia ad ogni particolare, ai colori ed alla forma dell’oggetto. Alla fine il computer stabilisce il miglior modello che può venir utilizzato per l’identificazione e la ricostruzione di qualsiasi oggetto che la persona vede senza prima aver analizzato l’oggetto in questione [82]. I metodi di brain immaging utilizzati durante lo studio hanno permesso di chiarire il ruolo svolto dall’amigdala sia nell’organizzazione delle diverse regioni corticali per dar vita all’intuizione percettiva, sia nel ritrovamento di questa nella memoria a lungo termine [83].

Anche l’assemblamento e la formazione del linguaggio, la semantica, è stata oggetto di studio: come riusciamo a tradurre i concetti ed il significato delle parole nel contesto di un discorso o di una lettura? Come si esplica l’espressione linguistica nella realtà? La risposta è stata data dal gruppo di Christopher Pallier [84] di Parigi, che ha ipotizzato l’aumento dell’attività del cervello essere proporzionale alla quantità delle parole in un discorso o in uno scritto. Questo recente studio ha dimostrato che per il linguaggio sono simultaneamente coinvolte quattro aree appartenenti al solco temporale sinistro e due del giro inferiore sinistro e che l’attività non è proporzionale alla quantità delle parole, ma presenta un andamento logaritmico: anche in questo caso, ed è una mia riflessione, risulta chiaramente l’emersione di una dinamica caotica, che si esplica con una curva alla potenza. Si ha conferma di una struttura ad albero, frattalica, che rende ragione dell’utilizzo di “frasi fatte” durante un discorso e della facile comprensione durante la lettura di testi con parole scritte non correttamente.

Con una nuova combinazione di risonanza magnetica funzionale con un sofisticato algoritmo informatico, i ricercatori del Max Planck Institut for Human Cognitive and Brain Sciences di Monaco di Baviera in collaborazione con ricercatori di Londra e Tokio sono riusciti a leggere le intenzioni ancor prima che queste emergano trasformandosi in azioni [85]. Praticamente ora si è in grado di decodificare le intenzioni segrete individuando l’attività cerebrale che “nasconde” la decisione di compiere o meno una determinata azione. E’ stato possibile scoprire con un’accuratezza del 70% le intenzioni in un campione di soggetti solamente interpretando con l’algoritmo i segnali ottenuti dalla risonanza magnetica funzionale, che sono l’espressione dell’attività cerebrale. Lo studio, coordinato da Haynes ha confermato che non sono i singoli neuroni, ma la regione prefrontale della corteccia, essere il sito di deposito delle nostre intenzioni.

Questo studio, tralasciando i risvolti negativi sia filosofici che etici da non sottovalutare, è meritevole, perché inaugura di fatto la metodologia per interfacciare il cervello ad un computer, potendo in tal modo alleviare la vita ai pazienti paralizzati, che potranno utilizzare protesi assistite tramite computer. Già cinque anni fa è stato possibile con un computer programmato aiutare pazienti affetti da patologie che determinavano la loro impossibilità a parlare, a comunicare col mondo esterno.

Ultimamente su Nature è stato presentato un sistema [86] col quale adulti normali sono riusciti a modificare alcune immagini sul computer utilizzando solamente il pensiero! Ai pazienti erano stati impiantati elettrodi intracranici per motivi clinici sulla corteccia del lobo temporale mediale.

L’esperimento era così programmato: dopo aver chiesto ai pazienti alcune domande riguardanti i loro gusti e le loro preferenze, gli autori dello studio avevano preparato cento immagini per ciascun paziente raffiguranti oggetti o personaggi da loro preferiti; i pazienti dovevano osservare al computer una immagine delle cento, composta al 50% da una immagine preferita e dal restante 50% da una immagine di disturbo. Al paziente era chiesto di pensare quella preferita. Nel 70% dei casi l’esperimento, che superficialmente può essere paragonato ad un videogioco, è riuscito! Alcuni soggetti dell’esperimento erano in grado di modificare la foto sul computer dell’oggetto o del personaggio, alcuni ripetendo più volte il nome e altri pensandolo intensamente. Forse la modificazione dell’immagine era possibile per la sincronizzazione neuronale.

Il fenomeno della sincronizzazione spontanea è frequente anche nel mondo animale: la manifestazione più spettacolare, perché suggestiva e poetica è quella fantastica visione di enormi sciami di lucciole posate sulle fronde dei maestosi alberi del Sud Est asiatico, luccicanti ad intermittenza ed in completa sincronia, tanto da far risplendere gli alberi all’unisono: da una luce accecante, al buio più profondo.

Innumerevoli esempi possono essere citati, basti ricordare le invasioni delle fameliche locuste, il canto dei grilli negli assolati pomeriggi d’estate, il contemporaneo sbocciare di molti generi di fiori, che improvvisamente da un giorno all’altro colorano i prati. Ora queste orchestre, che sembrano avere la facoltà magica di armonizzarsi da sole, stanno svelando alla ricerca i loro segreti e in molti casi sono state individuate le leggi fisiche e matematiche comuni, che sono alla base dell’emergenza spontanea della sincronia. Oggi la scienza della complessità sta chiarendo i numerosi fenomeni che trasformano il disordine temporale in armonia e coordinazione. Ad esempio nelle stesse aree geografiche del Nord America convivono due specie di cicale: la Magicicala tredecim e la septemdecimin; si sviluppano e vivono una sola stagione deponendo le loro uova nel terreno del sottobosco, dove le larve rimarranno per le prime tredici anni e per le seconde diciassette anni prima di mutare; in tal modo solo ogni 221 anni alla fine del proprio stadio larvale, da adulte, dovranno dividersi il territorio della foresta. E’ ben strano che come ritmo di sviluppo abbiano scelto due numeri primi[87]! Bastava che il loro stadio larvale fosse di 18 e rispettivamente di 12 anni che nello stesso periodo dovrebbero convivere per ben sei volte: dopo 36, 72, 108, 144, 180 e 216 anni (questi numeri sono multipli comuni a 18 e 12). Non credo che questa scelta sia stata frutto di una loro scelta! Né di qualche divinità delle praterie! E’ possibile che i diversi periodi siano stati causati da tentativi nell’evoluzione. Certo è che la scelta dei due numeri primi indica una griglia ordinata, che fa da supporto anche all’evoluzione delle cicale! Il fascino che emerge da questi studi è assoluto, perché ci pone di fronte al fatto che alcune leggi naturali incredibilmente semplici, governano la struttura e le dinamiche di tutte le reti complesse che ci circondano, anche quelle che coinvolgono la biologia: quelle del linguaggio cellulare, del sistema nervoso e da ultime quelle dell’effetto corale: della sincronia[88], che rappresenta la voce unica, il coro della polvere di Cantor, a ricordo ed essenza dell’unità dell’Universo.

L’Uomo, dopo aver percorso per secoli il mare della complessità, da pochi anni ha preso coscienza del suo navigare: non è più passivamente sospinto dai venti, ma è artefice e consapevole della rotta, ed é in grado di conoscere i nodi e la trama della vela per poter meglio navigare verso il faro delle verità.




[1] I. Prigogine: Zeit, Structur und Fluktuation (lezione tenuta in occasione del conferimento del premio Nobel) in  Angewandre chemie 1978, V. 90, 704-15 

[2] Murray Gell-Mann ha conseguito il premio Nobel per la Fisica nel 1969 per la scoperta dei Quark. E’ uno dei fondatori del Santa Fe Institute centro guida per gli studi sulla Complessità.

[3] Giulio Einaudi Editore 2006 titolo originale: Pogramming the Universe. A Quantum Computer Takes on the Cosmos.

[4] Mark Pagel e Coll. Frequency of word-use predicts rates of lexical evolution throughout Indo-European history Nature 449, 717-720, 2007

[5] Currie T.E. e Coll. Rise and fall of political compexity in islads Sout-East Asia and the Pacific. Nature 467, 801-804, 2010

[6] Currie T.E. e coll. (in press) Mode and Tempo in the Evolution of Socio-Political Organization: Reconciling “Darwinian” and “Spencerian” Evolutionary Approaches in Anthropology. Philosophical Trensactions of the Royal Society B.

[7] Quentin D. Atkinson “Phonemic Diversity Supports a Serial Founder Model of Language Expansion from Africa”. Science 332, 346-349, n°6027, 2011

[8] Pietro Izzo e Maria Letizia Scaramuzzi. L’autorganizzazione dei sistemi complessi. Darwin Day  2004- 2005, 167-181. Servizio Editoriale Universitario. Università degli Studi di Bari. 2005

[9] Stuart Kauffman “A casa nell’Universo. Le leggi del caos e della complessità.” Editori riuniti. 2001.

[10] Umberto Galimberti filosofo e psicoanalista italiano.nella prefazione de “Il Medico nell’età della tecnica” di Carl Jaspers. 1991 Raffaele Cortina  Ed. Pag. XXIII

[11] Karrl Jaspers “Il Medico nell’età della tecnica”. Cortina  Raffaello Ed.

[12] I. Prigogine. Zeit, Struktur und Fluktuation. (Lezione tenuta in occasione del conferimento del premio Nobel), in “Angewandre Chemie“, vol. 90, 704-15, 1978

[13] Wilson Edward O., Holldober Bert “Storia di un’esplorazione scientifica”. Adelphi. Milano 1997

[14] Daniel Clement Dennett filosofo statunitense della scienza da sempre studioso del funzionamento della mente.

[15] Santiago Ramon y Caial Medico Istologo premio Nobel per la Medicina nel 1906 in “Textura del sistema nervoso del ombre y los vetertebrados.” (1899-1904).

[16] Sinapsi = collegamento tra due cellule nervose deputato alla trasmissione dell’impulso nervoso.

[17] Ramon y Caial “The Croonian Lecture: La fine structure des centres nerveux”. Procedings of the Royal Society of London. Series B: Biological Sciences, 55, 444-467, 1894

[18] Ivan Petrovic Pavlov Fisiologo russo il cui nome è legato alla scoperta del riflesso condiziotato.

[19] Kornorski J. Conditioned reflexes and neuron organization. Cambridge University Press, Cambridge 79-80, 1948

[20] Kandel E. R., Spencer W. A. ”Cellular neurophysiological approaches in the study of learning” in Physiological Reviews 65-134, 1968

[21] Castellucci V., Pinsker H. e Coll. “Neuronal mechanisms of habituation and diasabituation of the gill-withdrawal reflex in Aplasia”. Science 167, 1745-1748, 1970
[22] Fenomeno LTP (Long-Term-Potentation)

[23] La molecola TrkB che è coinvolta nella memoria a breve e a lungo termine.

[24] Enrik R. Kandel.  “Alla ricerca della memoria. La storia di una nuova scienza della mente” Capitolo 19. Un dialogo tra geni e sinapsi.  pag. 257. La Biblioteca delle Scienze. Ed Speciale 2008. Le Scienze S.p.A. Roma.

[25] Piatr Wozniak algoritmo Super Memo. Http://www.supermemo.com
[27] Pico Caroni e Coll.. “β-Adducin Is Required for Stable Assembly of New Synapses and Improved Memory upon Enviromental Enrichment”. Neuron 69, Issue 6, 1132-1146, March 2011

[28] Taccuino che rappresenta la base di un DVD dal titolo:”The Dustan Baby Language”.

[29] Ferrari P.F., Pankner A., Ionica C., Suomi S.J Reciprocal face-toface comunication between rhesus macaque motters. Corrent Biology 19, 1768-1772, 2009

[30] Liz Spelke Univ. Harward. Cognition 107, 932-45, 2008

[31] Liz Brannon della Dake University. J. Exp. Psychol. Animal Behav. Process 26, 31-49, 2000

[32] Andreas Nieder del Max Plance Institut. Proc. Natl. Acad. Sci U.S.A. 104, 14513-8, 2007

[33] Jared Tagliatatela del centro nazionale di ricerca sui primati di Yerkes della Emory University di Atalanta. Georgia. Current Biology 18, 343-8, 2008

[34] Momento educativo esogeno dell’apprendimento.

[35] Conferenza di Woods Hole del ’59, coordinata da Jerome Brunner.

[36] Silvano Tagliagambe . Ideazione 2006.

[37] “Il riduzionismo è lo stratagemma di ricerca più efficace che mai sia stato escogitato: ad esso si deve la formazione delle scienze e della tecnologia” Peter Medwar premio Nobel per la Medicina con F. Macfarlane Burnet.

[38] e. Shorter “La tormentata storia del rapporto medico paziente”. Milano, 1986, Feltrinelli

[39] G.B.Shaw, Il dilemma del dottore (The doctor’s dilemma, Harmondsworth, 1946, Penguin, 26)

[40] Nietzsche nel “L’Aurora”. 1881

[41] Vittorio Gallese. Rivista di Psicoanalisi 53, 197- 208, 2007

[42] I neuroni specchio sono cellule dell’area motoria che si attivano sia quando si compie una data azione, sia quando si osserva un altro individuo mentre la compie. Questo tipo di neuroni esistono anche nell’area dell’insula, parte del cervello interessata nel processo emozionale. Questi neuroni sembrano essere alla base dell’altruismo oltre che dell’apprendimento. In “So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio”.Rizzolatti G. e Sinigaglia G. Raffaele Cortina Ed. 2006.

[43] Vittorio Gallese. Rivista di Psicoanalisi 53, 197- 208, 2007

[44] Secondo Vilayanur Ramachadran, direttore del centro per il cervello e la cognizione dell’università di San Diego della California.

[45] Rizzolati G., Fadiga L., Gallese V., Fogassi L. “Promoter Cortex and the recognition of motor actions”. Cognitive Brain Research 3, 131-141, 1996

[46] Fogassi L., Ferrari P.F., Gesierih B., Rozzi S., Ch’ersi F., Rizzolati G. Science 308, 662-67, 2005

[47] Gallese V., Fadiga L., Fogassi L., Rizzolati G. “Action recognition in the premotor cotex”. Brain 119, 953-609, 1996

[48] Gitte Lindgard della Carleton University di Ottawa. Behaviour and Information Technology 25, 2, 115—126, 2006. Lo studio ha dimostrato che la prima impressione è quella che conta ed è anche quella che perdura nel tempo (Halo Effect).

[49] Voltaire pseudonimo di François-Marie Arouet (1694 –1778) filosofo, scrittore, drammaturgo e poeta francese.

[50] New Scientist . Maggio 2007

[51] Klaus Zuberbuhler . Curren Biology 18, R202-3, 2008

[52] Già negli anni sessanta il linguista americano Noan Chomski, padre della cosidatta teoria standard, aveva spiegato che i bambini in maniera innata, tendono ad imparare i meccanismi universali della grammatica, riuscendo senza norme esplicite a formare un numero infinito di frasi.

[53] B. Mc Murray Science 2 agosto 2007

[54] Enard W. e Coll. “Molecular evolution of FOXP2, a gene involved in speech and language”. Nature 418, 869-72, 2002

[55] Stiven Arthur Pinker Docente di Psicologia alla Hardvard University. E’ stato professore per 21 anni al Departiment of Brain and Cognitive Sciences  al  M.I.T. Autore di “Tabula rasa. Perché non évero che gli uomini nascono tutti uguali.” Arnoldo Mondadori Ed. 2006

[56] Liliana Albertazzi Prof. Associato di Filosofia e Teoria dei linguaggi dell’Università di Trento.

[57] Statuine, collane strumenti musicali. I più antichi manufatti provengono dalle grotte di Fumane e Chauvet, i più   recenti in quelle di Altamira e Lascaux.

[58] Max Pagel professore di Biologia evolutiva dell’Università di Reading. Nature 449, 717-720, 2007

[59] Martin Nowak dell’Università di Hardward. Nature 452,  348-51,  2008

[60] Alfonso Caramazza del Centro interdipartimentale Mente-Cervello Università di Trento. Lectio Magistralis. “parole e Cervello”. Evento del “Festival della Scienza”. “Le Età della vita”. Auditorium Parco della Musica. 16 gennaio 2007, Roma

[61] D.E. Moerman “Placebo. Medicina, biologia e significato”. Ed Vita e Pensiero 2004 Traduzione de: “Meaning medicine and the “placebo effect”. Cambridge Univ. Press 2002

[62] Effetto placebo: l’effetto attuato da una sostanza inerte: un ossimoro!

[63] ”Scrivania ordinata è espressione di mente malata”.

[64] Helmholtz, Hermann Ludwig Ferdinand von (1821 - 1894) Fisico, matematico e fisiologo tedesco, studioso della fisiologia del sistema nervoso.

[65] Currie T.E. e Coll. Rise and fall of political complexity in Island Sout-East Asia and the Pacific. Narture 467, 801-804, 2010

[66] Giambattista Vico Napoli (1668-1744) filosofo, storico e giurista.

[67] Richard Dawkins. “Il gene egoista” (The Selfish Gene). 1976

[68] A questa categoria di memi la Blakmore ha posto il nome di “Temes”

[69] Susan Blackmore “The Meme Macchine”, Oxford University Press 1999. Traduzione italiana“La macchina dei memi”. Instar libri, 2002

[70] Drosophila melanogaster

[71] Caernorhabtidis elegans

[72] Acropora millipora

[73] Denntt D. 1995 in “Darwin’s Dangerous Idea” Penguin. London

[74] Neurochirurgo e neurofisiologo austriaco principalmente conosciuto per lo sviluppo, in collaborazione con il fisico David Bohm del  "modello cerebrale olografico della funzione cognitiva", da lui chiamato "modello olonomico del cervello" noto anche come "modello olografico di Pribram e Bohm" o come "paradigma olografico”.

[75] Miguel Castelo-Branco e Coll. Neural synchrony correlates with surface segregation rules. Nature, 412, 266-68, 2001

[76] Kahnt T., Heinzle J., Park SQ., Haynes JD. The neural  code of reward anticipation in human orbitofrontal cortex. Proc. Natl.Acad. Sci. U.S.A. 6010-5, 107, 2010

[77] Salah El Mestikawy and Coll. “From glutamate co-release to vesicular synergy: vesicular glutamate transporters”. Nature Reviews Neuroscience 12, 204-216, 2011

[78] Olaf Sporns in Scietific American Magazine January 2011

[79] Kay K.N., Naselaris ., Pregler R.J., Gallant J.L. “Identifying natural images from human brain activity”. Nature 452, 352-355, 2008

[80] Sinisa Pajevic e Dietner Pleuz “ Efficent Network Recostruction from Dynamical Cascades Identifies Small-World Topology of Neuronal Avalanches”. Plos Computational Biology 5, n 1, e 1000271, gennaio 2009

[81] Scientific American Magazine January 2011

[82] Naselaris T, Prenger RJ, Kay KN, Oliver M, Gallant JL. “Bayesian reconstruction of natural images from human brain activity”.Neuron. 2009 Sep 24;63(6):902-15.

[83] Naselaris T, Kay KN, Nishimoto S, Gallant JL. “Encoding and decoding in fMRI.  Neuroimage. 2010 Aug 4. [Epub ahead of print]

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